«L’amore per la musica porta sempre felicità: è la cosa più bella e importante della vita».
Arthur Rubinstein
Marco sognava di esibirsi come solista al Carnegie Hall. Il giovane pianista, dopo anni di sacrifici, ricevette l'invito a suonare in una importante sala di concerto. Non come solista, ma come accompagnatore di un flautista, in un programma musicale che non gli stava a cuore. La delusione lo avvolse, offuscando la passione che aveva sempre nutrito per la musica. Tuttavia, nonostante le aspettative tradite, Marco realizzò quella sera che il vero valore della sua arte non risiedeva nel successo personale ma nella capacità di condividere la bellezza e toccare l'anima delle persone. L'applauso caloroso del pubblico gli confermò che ogni esperienza avrebbe potuto trasformarsi in un'occasione unica di crescita e scoperta. Da quel momento accolse ogni opportunità come un regalo, imparando che le esperienze più significative spesso derivano da quelle situazioni lontane dalle nostre aspettative iniziali. La delusione, subdola compagna di viaggio dell'esistenza, si nutre spesso di un alimento tossico: l'illusione. Quell’inganno che ci cuciamo spesso addosso come una seconda pelle, pronta a sfogliarsi al primo soffio di realtà non allineata alle nostre proiezioni. Non è raro, infatti, cullarsi nella dolce convinzione che gli altri – amici, amori, figli, genitori – danzino al ritmo da noi stabilito, muovendosi sulla scacchiera della vita secondo scenari che abbiamo fissato nel nostro cervello. “Dovrebbero capire”, ci diciamo. “Dovrebbero agire come farei io”, ci illudiamo. Ma è qui che il gioco si fa crudele, perché nel momento in cui la realtà diverge dalle nostre aspettative ci ritroviamo disarmati, quasi traditi da quell'immagine che avevamo costruito e che gli altri non hanno deciso di incarnare. Eppure, la colpa – se di colpa si può parlare – non sta nelle azioni altrui, bensì nell'arroganza sottile con cui abbiamo creduto di poter attribuire caratteristiche, intenzioni, perfino sentimenti, a chi di noi è altro. Non sono gli altri a deluderci, siamo noi a deludere noi stessi, costruendo castelli di aspettative su fondamenta di sabbia, senza mai considerare che l'altro è un universo a sé, con costellazioni che non hanno ragione di allinearsi ai nostri desideri. Riconoscere questo è un atto non di resa ma di profonda comprensione dell'essere umano nella sua splendida imperfezione. Significa accettare che ogni persona è un mondo a parte, irriducibile alle nostre proiezioni. Significa, forse, imparare a guardare gli altri non per quello che vorremmo che fossero ma per ciò che realmente sono, scoprendo così la bellezza autentica della diversità umana. La delusione, allora, si trasforma. Da nemica si fa alleata; non più fine, ma inizio. L'inizio di un viaggio più autentico verso la comprensione dell'altro e, inevitabilmente, di noi stessi. Perché in fondo, come in uno specchio, è nelle aspettative infrante che possiamo trovare la chiave per una relazione più vera con il mondo. Un mondo che non balla al nostro ritmo ma che ci insegna la danza della realtà, ben più complessa, sfaccettata e ricca di sfumature di quanto le nostre illusioni di partenza potrebbero mai suggerirci.
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