È una pratica sociale fuori moda, quella di tacere. Eppure, come ricorda Qoelet, non solo dovrebbe esserci «un tempo per parlare», ma questo dovrebbe persino precedere il «tempo per parlare». È questa anche la tesi di un gioiellino del XVIII secolo, firmato dall’Abate Dinouart, intitolato L’arte di tacere. Il tacere, per Dinouart, è un silenzio espressivo, più che una mera interruzione. Non basta chiudere la bocca perché esso accada. Tacere presuppone un atteggiamento positivo verso l’altro, poiché passa per la presa di coscienza della qualità di ciò che noi intendiamo comunicare. Facilmente noi abusiamo delle parole, diventiamo logorroici, sovrapponiamo il flusso verbale al flusso interiore, e le parole si riducono a un modo di intrattenere e di colonizzare, invece di essere la sobria architettura di un incontro vero. Ci dà realmente da pensare l’osservazione che, come insegna l’autore, è giustificato parlare solamente quando si ha qualcosa da dire che valga più del silenzio. Quale responsabilità! Per questo egli insiste che non si giunge alla sapienza senza saper tacere; senza imparare a moderarsi nel discorso; senza essere capaci di quell’equilibrio che, in certe situazioni, risiede nell’avere la competenza di parlar molto senza parlare troppo. Un avvertimento importante è quello a non ridurre l’arte di tacere a una retorica della dissimulazione. A tal fine occorre tacere, sì, ma «senza chiudere il proprio cuore».
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