«N
essuno deve temere di perdere qualcosa, nel tragitto dell'anima». È una frase semplice e nello stesso tempo enigmatica del grande americano Ralph Waldo Emerson, contemporaneo di Melville e Whitman, un pensatoresimile ai presocratici, in cui si fondono pensiero, racconto e poesia.Incipit coraggioso, al limite dell'azzardo o della spavalderia, alla Paolo di Tarso: «non abbiate, non abbiamo mai paura». Impresa solo apparentemente facile: quante occasioni della nostra vita sono state mancate per una paura inconfessata, priva peraltro di una vera causa? Paura del nuovo, dello sconosciuto, di noi stessi.Quante volte ci è andata bene, nonostante un attimo di immotivata paura che rischiava di compromettere l'avventura di un istante, la scoperta di qualcosa fuori di noi, nell'“altro”? Ci è andata bene, ripeto, perché l'istinto, il senso di appartenenza, la compassione hanno spontaneamente prevalso sul calcolo, sulla prudenza interessata, su quella forma di paura non giustificata che ipocritamente è metaforizzata nel temine buonsenso, tutto attaccato, per paura che si spezzi e sgretoli. Emerson sta parlando dell'anima: di fronte alla quale non si deve avere paura di perdere nulla. Se ci spiazza, ci manifesta scenari nuovi e inauditi, crollino pure le nostre certezze, nulla si perde seguendo lei, l'anima.