Negli ultimi anni di fronte alle sfide della digitalizzazione, prima, e dell’intelligenza artificiale, poi, ci si è interrogati sempre di più sul significato di questa trasformazione. Alcuni si sono soffermati sul ruolo dell’informazione capendola come cifra chiave di quello che stava succedendo e vedendo in questa una vera e propria galassia organizzata o una sorta di caratteristica pseudo-metafisica che darebbe forma alla realtà. Altri sulle dinamiche capitalistiche e di monetizzazione della sorveglianza che hanno accompagnato l’avvento della datificazione del reale. Per quanto interessanti e suggestive, queste prospettive sono incomplete e mi sembra il caso di arricchire l’analisi con la prospettiva dei cosiddetti software studies. Questa espressione è stata introdotta sulla scorta dei gender studies, cioè di un campo interdisciplinare di ricerca accademica che vuole analizzare criticamente le costruzioni sociali, culturali e politiche associate alla comprensione del genere come elemento di potere. In maniera analoga i software studies esaminano il software non solo come un artefatto tecnico ma anche come un fenomeno socio-tecnico che ha un impatto significativo su società e cultura. Questa prospettiva vuole far vedere come il software non sia solo un elemento tecnico di una macchina programmabile ma un dispositivo di potere che, partendo dagli aspetti tecnici, ha una influenza organizzativa, economica, legale ed etica.
Dobbiamo riconoscere che è il software, e non l’informazione o i dati, ciò che sempre di più definisce e dà forma alla realtà. Pensiamo a uno degli store “Amazon Go” dove si può comprare quello che si vuole: il sistema registra e ci fa arrivare il conto senza neanche bisogno di passare dalle casse. Se il software si bloccasse la stessa natura del posto cambierebbe, sarebbe un magazzino inutile o una sala di attesa dove niente può essere venduto. Anche il mercato dell’auto ha subìto una trasformazione analoga. Musk con la Tesla ha trasformato l’automobile in un oggetto definito dal software. Non si tratta più di acquistare l’oggetto-macchina ma di pagare un canone che sblocca via software le funzioni volute. Tesla ha cambiato il concetto di optional: prima volere un optional significava equipaggiare un’auto con dell’hardware in più, previo un pagamento anticipato; oggi vale il pay per use. Tutte le Tesla hanno un equipaggiamento hardware completo a bordo ma parte di esso resta dormiente. Se si vuole utilizzarlo si deve comprare e scaricare del software aggiuntivo, dopo l’acquisto – come avviene per autopilot – oppure sbloccarlo pagando un abbonamento. Altre case automobilistiche hanno seguito questa via. Audi fa pagare di più per usare tutte le funzionalità dei fari avanzati: l’utente può pagare l’abbonamento d’inverno quando è più buio e disattivarlo d’estate, oppure ci si può abbonare in estate per le vacanze a un pacchetto che sfrutta la batteria per offrire un po’ di cavalli in più al motore per le gite estive.
Rendersi conto di questo salto nella realtà definita dal software ci serve per capire le sfide che viviamo, anche nella medicina. Questa prospettiva ha risvolti metafisici, dato che in fin dei conti cambia l’arredo del mondo. Da un punto di vista politico-economico questo cambiamento ha risvolti importanti da gestire: il software rende la materialità quasi una commodity dell’eseguibilità e ci fa chiedere cosa vuol dire oggi possedere un oggetto definito dal software. Ne siamo veramente padroni o siamo solo affittuari di funzioni che dobbiamo ogni volta pagare? Ora che anche i devices medici, sono sempre più definiti dal software, cosa rimane delle capacità cliniche, o delle figure dei medici? L’algoretica ci chiede di indagare anche in questa prospettiva.
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