Dovremmo forse essere più semplici di quanto non siamo, capaci di accogliere la vita senza troppe resistenze, pronti a ospitarla nella sua interezza, facendoci carico del grande compito di disimpedire e semplificare. Dovremmo probabilmente essere più buoni di quanto non siamo, pronti a sospendere la routine macchinale dei giudizi e a concentrarci non sull’imperfezione e il difetto, ma sulla porzione di autenticità che ognuno porta in sé. Dovremmo essere più miti di quanto non siamo, scegliendo la via della dolcezza tipica di chi è pronto ad ascoltare e a riconciliare, invece della durezza che irrigidisce e divide. Dovremmo essere più paterni e materni di quanto non siamo, coinvolti ad ogni istante nella gestazione positiva e piena di speranza della vita, accettando che la coniugazione del verbo nascere non finisce mai e accompagna gli esseri umani fino alla fine. Dovremmo essere più artigiani della pace di quanto non siamo, valorizzando in questo lavoro riparativo tutti i fili della relazione, anche quelli che diremmo indecisi, fragili o spezzati, anche quelli che diamo per impossibili. Dovremmo essere, rispetto alla maturazione della vita, più credenti di quanto non siamo, accettando il rischio di sostituire il nostro pessimismo preventivo (e in fondo così affine a un inutile cinismo) con una aspettativa fiduciosa. Dovremmo ricordare che siamo amministratori di sementi, e non di crepuscoli.
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