Quando una civiltà vive una crisi culturale e sociale profonda, come avviene oggi in Occidente e nel mondo (trent'anni fa il sociologo Serge Latouche parlò di «occidentalizzazione del mondo» e di megamacchina come «distruzione del legame sociale»): quando i rischi di autodistruzione per ottusità collettiva sono dovuti alla sproporzione fra l'enormità dei problemi da risolvere e la capacità intellettuale e morale di affrontarli, allora bisogna tornare a quei testi del passato che hanno parlato proprio di questo. Il secolo scorso ci ha lasciato un'eredità che non dobbiamo dimenticare: a partire da opere scritte durante la prima guerra mondiale come Gli ultimi giorni dell'umanità di Karl Kraus e Il tramonto dell'Occidente di Oswald Spengler, per arrivare agli autori che hanno riflettuto sulle cause della seconda guerra mondiale (Horkheimer e Adorno, Camus, Hannah Arendt). Poco noto e pochissimo letto è un testo che si distingue fra tutti: La prima radice di Simone Weil. L'autrice aveva solo trentaquattro anni quando morì nel 1943. Testamento e proposta di pensiero morale e politico per l’Europa del futuro, quest’opera, prima di arrivare alla parte conclusiva dedicata al “Radicamento”, parla delle “Esigenze dell’anima”. Nella prima pagina si legge che un essere umano «ha solo dei doveri, fra i quali ci sono certi doveri verso sé stesso: sono gli altri a dovergli riconoscere dei diritti, cioè ad avere obblighi verso di lui». E progresso non è altro che «passaggio a una società nella quale prima di tutto nessuno soffrirà la fame». Ma «il primo studio da farsi è quello dei bisogni morali che sono per la vita dell’anima l’equivalente del bisogno di nutrimento»: il bisogno di ordine, libertà, responsabilità, uguaglianza e verità («il bisogno più sacro di tutti»). I bisogni sono limitati e non bisogna confonderli con desideri, capricci, fantasie, vizi, che invece sono senza limiti. Il libro si conclude con una pagina su una nozione in tutto fondamentale, quella di limite, che la nostra cultura ha perduto.
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