Sempre più urgente un ripensamento da parte degli uomini della loro identità maschile, un riformularsi del rapporto che i maschi intrattengono interiormente con la figura della donna, delle donne. Lo dice in modo drammatico la cronaca, lo dicono in maniera meno drammatica relazioni e interazioni complicate tra i due sessi, ma prima ancora lo dice un disagio che è di tanti uomini, un malessere che quando non è psichico, è comunque di natura psicologica. Negli ultimi decenni le donne hanno fatto grandi passi avanti nell’affermazione di loro stesse, e tuttavia a questa evoluzione non corrisponde, o quantomeno, non in (troppa) buona parte dei casi, una corrispettiva e speculare maturazione interiore degli uomini. Discorso ampio, sin troppo ampio, certo, che rischia di risultare opaco e generico se non lo si articoli in singoli frangenti e casi. Tema che vuole criteri nuovi, nuove elaborazioni, dato un assetto di relazione tra uomini e donne che è, in forma evidente, in grande trasformazione. Si sa - e lo si scrive consapevoli del rischio di apparire ingenui - che la prima figura femminile con la quale un uomo si trovi a dover fare i conti, dentro sé prima di decidersi a fare un salto verso una natura e un’attitudine nei riguardi delle donne più matura, adulta, più consapevole e libera – si sa che tale figura è quella materna. Lessi anni fa con molta partecipazione e ammirazione un libro dello scrittore Roberto Alajmo dal titolo L’estate del ’78. Vi raccontava di sua madre, dipanando con coraggio narrativo la convulsa sofferenza di lei, una donna magnetica e dolente. Ora, a distanza di anni, mi imbatto in un nuovo libro di alta qualità letteraria scritto da un uomo che ripercorre a ritroso la figura della madre, rendendola un personaggio indimenticabile in tutti i suoi chiaroscuri. Lo ha scritto Antonio Franchini, nome importante dell’editoria italiana oltre che scrittore. Il fuoco che ti porti dentro (Marsilio, pagine 222, euro 18,00) è un ritratto pieno di profondità, amara ironia, umbratile amore, cameo di una donna irruenta e smodata, esagerata nei modi, nei gesti, nelle parole, e perciò a lungo dal figlio maschio detestata, contrastata, tenuta a distanza. Prima ancora di chiamare in causa la forza letteraria di un libro così (la cui lingua è tra le altre cose potenziata dalle continue inserzioni di dialetto napoletano) se vale davvero la pena leggerlo è per avere contezza di quanto materiale prezioso possa scaturire da un processo di autoanalisi messo in atto da un uomo il cui sguardo si fissi sulla prima figura decisiva della vita, la madre. Il coraggio e l’onestà insiti nell’andare a fondo in una esplorazione a posteriori di quello sguardo di figlio, sguardo polemico, ferito, complicato, ma ripensare il quale lascia comprendere quanto proprio quello sguardo abbia segnato la propria identità di maschio. Noi siamo gli occhi che le prime figure adulte hanno posato su di noi, così come siamo le traiettorie di osservazione che a nostra volta su quelle stesse figure abbiamo nell’infanzia orientato. Anche senza scomodare la psicoanalisi, oppure facendolo in modo traslato, attraverso altri strumenti (qui, la letteratura) da questa verità, se esplorata con il dovuto coraggio, si dipanano i fili delle nostre identità anche dal punto di vista del genere sessuale, il percorso delle nostre mascolinità e femminilità. Una lettura come quella del romanzo di Franchini ne dà la misura: perché dietro la figura onnipresente di una madre “impresentabile”, rumorosa, scomoda, in moltissime circostanze indecente, c’è uno sguardo di uomo attento, un uomo cresciuto e del tutto adulto, che proprio nella onestà di dichiarare il suo disagio, la sua “vergogna”, trova la strada per conoscere pietà, comprensione, empatia verso la madre. E così trovare sé stesso.
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