Scomparire nel Sahel per poter esistere
Lo scriveva anni fa il subcomandante Marcos, oggi col nome militante di Galeano, dalla foresta Lacandona nel Messico. Lui e il popolo che ha scelto come suo, si coprivano il volto col passamontagna. Lo diceva nei suoi memorabili scritti, tra poesia, politica e ribellione. «Y miren lo que son las cosas: porque para que nos vieran, nos tapamos el rostro; para que nos nombraran, nos negamos el nombre; apostamos el presente para tener futuro; y para vivir… morimos». («Guardate come sono le cose: perché ci vedano, ci copriamo il volto; perché ci prendano in considerazione, cancelliamo il nostro nome, mettiamo in gioco il presente per avere un futuro e per vivere moriamo»). Ciò continua ad accadere nel Sahel e altrove nel mondo. Sono invisibili finché non scompaiono nel mare (a condizione che ci sia chi racconti il naufragio) o nel deserto o nelle tante frontiere armate rinvigorite nel frat-tempo del Covid-19. Migranti, rifugiati, impoveriti, scartati dal sistema di esclusione globale delle politiche neoliberali e vittime di carestie, solo quando scompaiono come persone cominciano ad esistere per la cronaca umanitaria. Proprio allora, non prima, gli assenti si presentano all'appello e da invisibili passano, da comprimari, sulla scena mediatica per poi tornare a scomparire.
Da cittadini inesistenti diventano numeri, in vista di progetti da finanziare se non si vuole che la crisi si trasformi in tragedia. Lo ricordava la Comunità di Sant'Egidio che, in occasione della giornata mondiale dei rifugiati, sabato 20 giugno scorso, ha opportunamente fatto memoria dei morti della Grande Guerra. Quella perpetrata contro i migranti che, dal 1990 fino ad oggi, ha prodotto almeno 40.900 morti, nel Mediterraneo e nel deserto che lo precede. Cifre probabilmente sottostimate, in particolare per gli scomparsi nel deserto che alcuni specialisti delle migrazioni, poco ascoltati, valutano almeno al doppio dei morti in mare. Sant'Egidio anche quest'anno ha promosso una veglia che aiuti a passare dalle mere statistiche ai volti e ai nomi dei deceduti.
Per i rifugiati nel mondo, sradicati, portati via, sballottati da circostanze e politiche assassine che distruggono ogni umana convivenza, le cifre sono a tutt'oggi drammatiche e formano una specie di teatro dell'assurdo di personaggi in cerca d'autore. Sfollati interni, profughi, rifugiati, emigrati poi ancora rifugiati oppure assistiti e costretti a scappare di nuovo dopo l'ultimo attacco di milizie, terroristi, banditi comuni o dall'avvicinarsi della zona del fronte. Nel Niger, preda dell'insicurezza e di una corruzione che non risparmia niente e nessuno, si stima che oltre due milioni di persone abbiano bisogno di assistenza umanitaria. E almeno altri 100mila rifugiati e sfollati sono stati censiti, aggiungendosi ai circa 300mila già riconosciuti. Nella regione di Diffa sono migliaia i cittadini in fuga dai massacri di Boko Haram e lo stesso nella zona di Maradi, più a ovest. Infine nell'area delle tre frontiere, Mali, BurKina e Niger, altre migliaia di rifugiati e sfollati hanno incrementato il numero di invisibili diventati, loro malgrado, oggetto di assistenza e presa a carico.
Così accade per i giovani e i progetti loro indirizzati. Diventano all'improvviso presenti quando si tratta di frenare la migrazione. È di questi giorni nella zona di Tahoua, nel nord del Paese, da sempre luogo di partenza di giovani in cerca di un futuro differente, la cerimonia di ricezione di materiale da parte dell'Unione Europea e del Ministero tedesco alla Cooperazione e Sviluppo. Lo scopo è riassunto nel discorso del rappresentante del governatore della Regione… «perché i giovani, attori principali del futuro del Paese, per mancanza di opportunità lavorative non diventino una preda facile per i gruppi estremisti, jihadisti, banditismo e della migrazione irregolare». Tutto chiaro allora, per tornare ad esistere bisogna scomparire, per essere visti occorre nascondere il volto e per vivere c'è prima da morire.
Niamey, giugno 2020