Tra meno di una settimana, il 1° luglio, la presidenza di turno dell’Unione Europea per il secondo semestre del 2023 passerà dalla Svezia alla Spagna. Nella trasmissione delle consegne fra Stoccolma e Madrid, come di consueto, verranno elencati tutti i dossier più delicati e scottanti che il Paese guida uscente non è riuscito a chiudere e con il quale il governo entrante dovrà cimentarsi. Tra le patate più bollenti, difficilmente sarà inserita una questione in apparenza secondaria, ma che acquista un forte valore simbolico per chi crede davvero nei valori europei. Si tratta della piena libertà di circolazione interna fra gli Stati Ue, nell’ambito della cosiddetta “area Schengen”.
Garantita in linea di principio dal trattato del 1990 che prende il nome dalla località lussemburghese, la possibilità effettiva per ogni cittadino dell’Unione di muoversi attraverso i confini interni senza venire fermato e sottoposto a controlli è fortemente limitata da quasi un decennio a questa parte. Tutto è cominciato con gli attentati di matrice islamica che hanno funestato il 2015, in particolare in Francia. Nello stesso periodo si è registrata l’onda dei profughi siriani in fuga dalla guerra. È stata poi la volta dell’emergenza Covid, che ha offerto a diversi governi il pretesto per ripristinare barriere e pattugliamenti di polizia. Infine, i movimenti migratori accentuati dalla guerra in Ucraina hanno dato ulteriori giustificazioni a chi paventa presunte “invasioni”.
Le regole di Schengen prevedono in effetti che la sorveglianza alle frontiere con altri Stati membri possa essere reintrodotta ma solo in casi di reali minacce per la sicurezza interna e per un periodo massimo di sei mesi. Dopo questo termine, il governo interessato può ottenere una proroga solo se può dimostrare con elementi concreti la persistenza del problema. Accade invece che diverse capitali continuino a mantenere controlli sistematici agli ingressi da diversi anni. Il caso più eclatante è probabilmente quello dell’Austria, che di recente ha rinnovato la sospensione di Schengen al confine con la Slovenia per la diciassettesima volta consecutiva, nonostante le proteste di Lubiana, che ora minaccia ritorsioni.
Da parte di Vienna, inoltre, si alimenta da tempo un braccio di ferro con Romania e Bulgaria, alla cui ammissione nel perimetro comune di libera circolazione continua a opporsi, malgrado le pressioni della Commissione di Bruxelles, che ha ventilato azioni legali, e le richieste dell’Europarlamento. Nei giorni scorsi, il nuovo premier socialdemocratico di Bucarest ha annunciato un’iniziativa specifica per rimuovere il veto austriaco, ma ha ammesso che non sarà una trattativa semplice, visto l’orientamento politico dell’esecutivo nel Paese alpino
In realtà, l’Austria è in buona compagnia nell’aggirare Schengen. Soltanto tra aprile e maggio scorsi, anche Danimarca, Francia, Germania, Norvegia e Svezia hanno notificato a Bruxelles la reintroduzione dei controlli in alcuni confini per altri sei mesi. L’Esecutivo Ue ha fatto sapere che si riserva di verificare la fondatezza delle giustificazioni addotte. Già in partenza, però, ha avvertito che in certi casi i governi interessati sono riluttanti, per motivi di sicurezza, a far conoscere alcuni “dati sensibili”, che spiegherebbero le... ragioni di sicurezza per richiamare in servizio la polizia di frontiera! E così il cerchio si chiude e il diritto di circolazione va a farsi benedire. Restano i proclami sull’Europa di 425 milioni di cittadini, liberi di andare dove desiderano senza mostrare i documenti. Ma solo in teoria.
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