La si potrebbe chiamare, con un pizzico di provocazione, elezione diretta dei parlamentari. Sì, perché mentre si discute del ruolo e della forma di legittimazione del premier, sul rapporto tra cittadini e istituzioni c’è un altro fronte aperto che non riceve l’attenzione che meriterebbe e che riguarda il potere degli elettori di scegliere davvero i parlamentari che dovranno rappresentarli. Non che finora questo non sia avvenuto in assoluto: è bene precisarlo perché ad ascoltare certi discorsi pubblici (talvolta da pulpiti non proprio inattaccabili) sembra quasi che in Italia non sia mai esistita un’autentica democrazia. Non è così, evidentemente, ma questa consapevolezza non esime dalla responsabilità di alimentare lo spirito democratico anche attraverso interventi che rivitalizzino gli snodi della partecipazione. Per esempio superando il sistema delle “liste bloccate”. La legge elettorale attualmente in vigore prevede infatti che i cinque ottavi dei seggi siano assegnati in collegi plurinominali con il metodo proporzionale e – appunto – brevi liste di candidati predeterminate che l’elettore trova stampate sulla scheda accanto al simbolo. Sulla scheda compare anche il nome del candidato che concorre nella parte uninominale maggioritaria (per i restanti tre ottavi dei seggi) collegato a uno o più simboli di lista. L’elettore deve prendere tutto in blocco: se indicherà solo una lista il suo voto varrà anche per il candidato uninominale collegato, se sceglierà solo il candidato uninominale, i suffragi ricevuti si spalmeranno sulle liste collegate. In queste ultime, poi, gli eventuali seggi conquistati saranno assegnati in base all’ordine in cui i candidati sono stati posizionati dai rispettivi partiti.
Su questi temi è intervenuta più volte la Corte costituzionale, in particolare con la sentenza n.1 del 2014, quella che ha bocciato il cosiddetto Porcellum per una serie di gravi motivi, tra cui proprio la presenza di grandi liste bloccate. In quella stessa occasione la Corte aveva lasciato la porta aperta all’ipotesi di liste «nelle quali il numero dei candidati da eleggere sia talmente esiguo da garantire l’effettiva conoscibilità degli stessi e con essa l’effettività della scelta e la libertà del voto (al pari di quanto accade nel caso dei collegi uninominali)». La legge attuale si è inserita in questo varco stabilendo che le liste contengano da 2 a 4 candidati, un numero obiettivamente “esiguo” e tale da soddisfare il criterio indicato dalla Consulta. Ma se «la libertà di scelta degli elettori nell’elezione dei propri rappresentanti in Parlamento... costituisce una delle principali espressioni della sovranità popolare», come si legge nella medesima sentenza del 2014, il legislatore avrebbe tutta la discrezionalità necessaria per esaltare questo principio. È una questione di volontà politica: ai leader dei partiti le liste bloccate convengono, ovviamente. Le alternative percorribili sono fondamentalmente due: il voto di preferenza e i collegi uninominali (magari integrati dalle “primarie” di collegio). Entrambe hanno dei pro e dei contro, ma avere un Parlamento più rappresentativo – anche nella percezione degli elettori – sarebbe una risorsa preziosa per la nostra democrazia, tanto più a fronte di un rafforzamento dei poteri del premier.
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