Sono in treno, il vagone è affollato. Ma il posto vicino al mio, lato finestrino, è vuoto, almeno fino a un minuto prima della partenza, quando si presenta, ansimante, un uomo. Ha una barba lunga e bianca, un corpo imponente, sulle spalle uno zaino che, da come lo scarica a terra, non deve essere leggero. Con una voce sottile, acuta, che contrasta con la sua mole, mi chiede se il posto è libero, poi fa passare pericolosamente lo zaino sopra la mia testa e lo sistema sul sedile. «Dia un occhio, per favore» mi dice allontanandosi traballante lungo il corridoio mentre il treno parte. Armeggia qui e là per sistemare una valigia, altrettanto pesante, e poi deposita anche se stesso sul sedile di fianco, travolgendomi in mille operazioni, alcune funzionali, altre incomprensibili. Tra i vari ammennicoli che ha appesi al collo, c'è un astuccio rettangolare che a un certo punto mi finisce addosso. Glielo passo, lui mi dice un grazie frettoloso e mi dà una gomitata. Mi sposto, seccata. L'uomo apre l'astuccio, tira fuori una scatoletta nera e si mette a sfiorarla da sinistra a destra con le dita. Che cosa starà facendo? Di colpo intuisco che legge con il metodo Braille. La sua irruenza, i suoi gesti maldestri in un attimo per me cambiano di segno. Mi chiedo a quante cose reagiamo con fastidio senza sapere, senza capire.