La storia di Renzo De Vecchi è uno dei miei primi incontri felici con il calcio che ho affrontato e divorato, per decenni, come un romanzo. Renzo aveva 15 anni quando esordì nel Milan: era il 1909 di lì a poco lo chiamarono “il figlio di Dio” in un'epoca non proclive agli eccessi, ducismo ancora lontano. Esordì ma non fece gol. Ahilui, era un terzino. Pensate come doveva esser bravo per diventare, lui difensore, un idolo delle folle. Ho ricordato De Vecchi, in questo fine settimana, quando a Bologna Moise Kean, nato il 28 febbraio del 2000, ha segnato da primo “bimillenario” il gol vittorioso della Juve; eppoi ventiquattr'ore dopo, quando all'Olimpico è andato in gol Pietro Pellegri, nato il 17 marzo 2001: due ragazzi italiani che mi hanno rammentato la passione per chi scrive il futuro e l'orgoglio d'esser stati presenti alle prime partite di Gianni Rivera, Giacomo Bulgarelli, Diego Armando Maradona, Roberto Baggio e tanti altri. Poi è arrivata la grande festa di Totti e ho confermato a me stesso di preferire gli esordi agli addii. Non è una mancanza di riguardo a lui e al suo popolo piangente; non ricordo cerimonie di commiato per i campioni che ho appena nominato, anzi: per Baggio s'inventarono un'amichevole d'addio alla Nazionale solo per permettere a Trapattoni di lasciarlo a casa dall'Europeo portoghese essendo stato scelto, per il ruolo di Mr.Fantasia, proprio Francesco Totti. E ricorderete come finì. Mamma Roma è stata più generosa. Eppoi, ho diritto a preferire gli esordi agli addii perché la sera del 25 marzo 1993 l'allenatore della Roma Vujadin Boskov, avendomi invitato a cena per parlarmi dei problemi della gestione Ciarrapico - erano finiti i soldi - mi disse che pensava di fare esordire un ragazzo non ancora diciassettenne: «Si chiama Totti, è un settantasei, ha piedi buonissimi». Me ne avevano già parlato e sparai lo sgub sul Corriere dello Sport: «Ecco il Pupone». Tre giorni dopo esordì a Brescia. Ventiquattr'anni dopo il saluto urbi et orbi con regìa e lettera d'addio (dicono) di Maurizio Costanzo, lacrime e sorrisi (per fortuna Pellegri non ha fatto il bis...), una parade straordinaria cui ho partecipato in silenzio ricordando il Vujadin dimenticato e il presidente Franco Sensi che si è svenato per tenersi Francesco capitano della Roma quando il Real e il Liverpool offrivano miliardi a palate e non usavano ancora le furbate delle clausole rescissorie. Ieri Mamma Roma s'è ripresa il suo amatissimo figlio per avviarlo a nuovi successi. Nel frattempo, fuori scena, nella commedia che neanche Garinei e Giovannini (peraltro laziali) avrebbero realizzato così bene, Luciano Spalletti in camicia bianca si contorceva nel dubbio: esserci? non esserci? O vedere l'Inter in tivù? In tivù - tantissimi - più tardi ci siamo visti la storia più naturale, più bella calcisticamente, più esaltante: la salvezza del Crotone sancita dalla sua ennesima performance da campione (in dieci giornate ha vinto più della Juve) e dalla vittoria del Palermo sull'Empoli sciupone retrocesso a sorpresa. Grande festa a Crotone, come se avessero vinto lo scudetto. In trionfo Nicola, l'allenatore che ci ha creduto fino in fondo. E un dettaglio non secondario, una piccola lezione: il Crotone dell'allenatore mai discusso dalla società, neppure quando la retrocessione pareva ineluttabile, è stato salvato dalla squadra che è retrocessa dopo avere cambiato cinque tecnici. Domenica 28 maggio, Zamparini Day.