Cent’anni fa, ai Giochi Olimpici di Parigi 1924, gli Usa vinsero il medagliere, come spesso è successo nella storia dell’olimpismo moderno. Al secondo posto, con 37 medaglie (14 ori, 13 argenti, 10 bronzi), si classificò la Finlandia, grazie a un bottino di 17 medaglie conquistate nell’atletica leggera, 16 nella lotta, 3 nel tiro e una nella vela. L’atletica finlandese era, ai tempi, trainata da Paavo Nurmi, mezzofondista, uomo leggendario nato a Turku, figlio di un carpentiere che dopo il ritiro gestì una merceria a Helsinki, dove nel 1952 accese il braciere olimpico. Nurmi parlava correntemente il latino, tanto che in occasione dei Giochi di Helsinki Gianni Brera, inviato per La Gazzetta dello Sport, lo intervistò in quell’unica lingua comune, visto che il campione finlandese non conosceva l’inglese. Paavo Nurmi ha segnato l’immaginario di generazioni di sportivi e ha contribuito a costruire la solidissima cultura sportiva finnica. Lo speciale Eurobarometro del 2022 restituisce un dato inconfutabile: il 71% dei finlandesi pratica regolarmente sport, contro il 34% degli italiani e il 38% della media degli europei. Occorre aggiungere che la Finlandia dispone di una rete di impianti e strutture sportive scolastiche di assoluta eccellenza, l’accesso alla pratica sportiva è garantito dalla gratuità offerta dalla scuola e c’è un’attenzione assoluta all’equilibrio di genere, anche nella governance dello sport. In Finlandia, insomma, lo sport è una cosa dannatamente seria e costituisce un vero sistema di welfare. Non devo spiegare, purtroppo, quanto tutto ciò sia distante dal modello italiano, martoriato da problemi economici, infrastrutturali, quasi inesistente nella scuola e di poco appeal su molti giovani che, infatti, sono fra i più sedentari in Europa. Questo articolo sarebbe, tuttavia, inutile e banale se non analizzassimo un altro dato: ai Giochi di Parigi, cent’anni dopo quelli di Nurmi, la Finlandia, dopo una grande crisi di risultati che durava già da tanto (l’ultima medaglia d’oro risale a Pechino 2008), ha toccato il punto di non ritorno: zero medaglie d’oro, zero d’argento, zero di bronzo. Questo fatto, comparato ai grandi risultati italiani, fa pensare: esiste una relazione fra la pratica diffusa dello sport e i risultati di vertice? Risposta: no. Esiste una relazione fra qualità delle infrastrutture e medaglie olimpiche? Risposta: no (chiedere a scherma e ginnastica che ci hanno storicamente rifornito di allori partendo da palestre-sottoscala). Resta dunque un tema: gli investimenti economici in Finlandia sono ingenti, ma riguardano lo sport inteso soprattutto come “cultura del movimento” e sono orientati a promuovere l’aspetto sociale e di beneficio alla salute dell’attività fisica. Gli investimenti sullo sport in Italia hanno evidentemente altre priorità, al punto da costringerci a pensare: guai se non vincessimo! È evidentemente un fatto di equilibri da trovare (in Finlandia non sono per nulla felici di essere tornati a mani vuote da Parigi), che fanno riflettere su una domanda, la cui risposta lascio inevasa: lo sport è uno strumento di soft power internazionale e dunque solo il medagliere diventa strategico, oppure è un investimento sul futuro del Paese, sui giovani, sulla salute, sulla cittadinanza e magari anche su un’idea di agonismo meno tossica? E, soprattutto: potrebbe essere queste due cose insieme?
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