Rubriche

Saggezza e potere nei versi di Shelley

Alfonso Berardinelli venerdì 13 marzo 2020
Riprendo qui un’idea che suggerivo in questa stessa rubrica la settimana scorsa, secondo cui Pasolini, più che come poeta in senso stretto, è stato importante in vita e dopo la morte come autore globale: saggista, giornalista, critico letterario, regista cinematografico, critico sociale e morale e infine personaggio del suo dramma biografico. L’insieme della sua poesia è spesso troppo improvvisato, giornalistico, sovrabbondante. La stessa cosa potrebbe essere detta di un poeta come Percy Bysshe Shelley, uno dei maggiori e più tipici poeti romantici inglesi. Thomas S. Eliot, pontefice massimo della poesia e della critica di lingua inglese, ha detto: «essere entusiasti di Shelley mi sembra una cosa da adolescenti», aggiungendo che trovava «le sue idee ripugnanti». Uno storico della letteratura come Mario Praz ha scritto che «il gusto di Shelley, a dir poco, non era impeccabile» e sebbene le sue liriche maggiori rivelino la sua genialità, «nessun altro genio ha prodotto tanta zavorra». Bisognerà dunque saper distinguere tra l’esemplarità letteraria di un poeta e la sua importanza culturale e storica: in alcuni casi le due cose coincidono, in altri casi non del tutto. Shelley è stato un poeta–personaggio, un ribelle, un utopista, un sognatore ego–idolatrico: il giovane che lasciò l’Inghilterra che lo rifiutava come scandaloso per i suoi scritti e la sua condotta e si trasferì in Italia, «paradiso degli esuli». Fu amico di Byron e di Keats (anche lui come Shelley sepolto a Roma) e morì a trent’anni naufragando con la sua barca a vela al largo di Viareggio. Un anno prima della sua morte, nel 1821, scrisse uno dei suoi saggi più famosi, Difesa della poesia, ora pubblicato a cura di Franco Venturi – come abbiamo segnalato su queste pagine nelle scorse settimane – con testo inglese a fronte dalle edizioni La Vita Felice (pagine 120, euro 9,50). Influenzato sia dalle rivoluzioni francese e americana che da Platone (considerato da lui un poeta) e dalla figura di Gesù Cristo, che “divulgò le verità eterne e sacre” contenute nelle dottrine esoteriche greche, Shelley teorizzò il carattere profetico in senso biblico della poesia. La poesia è per lui percezione del valore, è immaginazione e sintesi che esprime il principio di integrità; mentre la ragione è solo «enumerazione analitica di quantità già note». Nella poesia coesistono saggezza e piacere, cosa che permette di far coincidere la sensibilità di ognuno con l’utilità di tutti. «Un uomo, per essere veramente buono, deve avere un’immaginazione intensa e comprensiva» e la poesia «rafforza la facoltà che è l’organo della natura morale umana». Questa idea romantica della poesia come religione dell’integrità umana, che fu in Shelley e in altri una rivolta contro il mondo della rivoluzione industriale e l’utilitarismo “computazionale” dell’economia, è un’idea che nel Novecento non è piaciuta molto. In realtà, oltre a esprimere una critica tempestiva dell’etica capitalistica, resta tutt’ora attuale nella sua apparente inattualità, sia come filosofia delle arti che come tramite alla comprensione delle tradizioni premoderne.