La vera storia del calcio la scrivono i calciatori. Giornalisti e scrittori ne raccolgono le metaforiche pagine che subito qualche snob direbbe «scritte con i piedi». E sia: infatti Pier Paolo Pasolini - che considero involontario maestro - scrisse di «ventidue Podemi» con i quali si esprimevano i pedatori del suo tempo, ognuno identificato con la sua specialità di scrittore: Bulgarelli prosatore, Riva poeta realista, Corso poeta maudit, Rivera e Mazzola elzeviristi da Corriere della Sera... Ed eccomi, cronista sportivo e insieme testimone del tempo, azzardarmi a interpretare la scrittura di Francesco Totti/Andersen, a darne una definizione pur sapendo che partorirò una banalità, tipo “favoliere”: perché l'altra sera, all'Olimpico, Francesco ha scritto una favola, non un velenoso editoriale - come tanti vorrebbero - o un pretenzioso elzeviro, e nemmeno una dissacrante invettiva: in neppure quattro minuti ha realizzato due gol davvero favolosi perché capaci di sovvertire non solo un risultato, trasformando una sconfitta in vittoria, e fin qui è solo emozionante gioco del pallone; ha fatto di più, ha dilatato o chiuso la contesa con il suo allenatore Spalletti, ha suturato o aggravato una ferita inferta da un Mister a un Totem, da un soccorritore che ha mostrato di saper guarire una squadra chiamata Roma, e lei sola, senza curarsi del suo mentore Francesco, il “SalvatoreŠ. Oggi vorrei partecipare anch'io alla rissa dialettica, e schierarmi, secondo logica con Spalletti oppure, secondo fantasia, con Totti, ma sbaglierei: preferisco pensare che dalle parole e dai gesti sconsolanti di questi giorni sia scaturita una formula magica che garantisce vittoria, e dunque che dal dissidio mediatico sia nata una spettacolare complicità. Il resto - ragione o torto - non esiste più. Questo è il calcio, bellezza. La storia - dicevo - lasciamola raccontare ai calciatori. Quei quattro minuti di Totti sono Storia e non somigliano ai mortificanti minuti di Rivera alla fine di Italia-Brasile di Messico Settanta ma a eventi esaltanti o semplicemente emozionanti che ho scelto fra i tanti vissuti: i quattro minuti del 22 aprile 1986 che in Argentina-Inghilterra bastarono - dal 51' al 55' - a Diego Armando Maradona per segnare un gol falso con la «mano de Diòs» e farsi perdonare con il gol più bello di tutti i tempi inflitto al prode Shilton dopo aver saltato Hoddle, Reid, Samson, Butcher e Fenwick; e ancora i quattro minuti di Juventus-Napoli del 6 aprile 1975 che bastarono all'ex azzurro Jose Altafini per realizzare all'88'- dopo l'1-0 di Causio e l'1-1 di Juliano - la rete che assegnò lo scudetto ai bianconeri negandolo ai napoletani che da allora ribattezzarono il “traditore” Jose «Core 'ngrato». Erano minuti preziosi, quelli del sempreridente canterino brasiliano che firmò un ruolo nuovo con minutaggio «alla Altafini». Vien voglia di suggerire a Francesco di farsi umile e utile come Altafini: ma i due fulminanti gol dell'altra sera sono inimitabili invenzioni «alla Totti».