La collocazione geografica delle poesie di Valerio Mello (Rive, Edizioni Ensamble, pagine 120, euro 13,00) svaria da La Gomera (Canarie) alle isole greche di Scarpanto, Amorgo, Paro, Delo, ad Amsterdam, Bologna, Torino, Porto Venere, Varazze, con prevalenza di Agrigento, dove il poeta è nato nel 1985 e, soprattutto, di Milano dove vive dal 2011. Tale ancoraggio toponomastico non prelude a divagazioni paesaggistiche perché il poeta, ovunque sia, elabora un soliloquio astratto in cui il nome delle cose è evocato per essere subito generalizzato. Mello non scrive in versi, usa brevi periodi alla Paul Claudel, ma non aforistici. Poesia? Prosa? Gianmarco Gaspari, nella pertinente postfazione, parla di «tentazione della prosa, proprio perché non si tratta di un abito che s'indossi un giorno nella vita per poi liberarsene, ma condizione costante: come se in fondo oscillare tra i due poli fosse solo un aspetto secondario del dire, che per volontà propria resta libero di assumere l'una o l'altra forma». Inevitabilmente, all'interno della prosa apparente di Mello si celano versi, endecasillabi soprattutto, perché tale è il ritmo della lingua italiana che si impone anche a chi non lo cerca. Lo sguardo del poeta scorge la Gorgone (la Medusa anguicrinita) anche nell'orologio della stazione ad Agrigento che gli ricapitola il passato: «Lo riconobbi subito, era sempre lo stesso orologio. Volli chiamarlo, ricordargli che il tempo ci invita a una eccessiva arrendevolezza. / L'orologio della stazione era frantumato, piegato sulla battuta serale, mentre i binari entravano già nell'argomento di una definita penombra e i palazzi sporgenti si riconoscevano nei soggetti distanti del tramonto. / Un'altra volta a casa mia. / L'orologio seppe tralasciare i dettagli irrilevanti, mi affrontò con la forza di termini usati dalla membrana del passato e fu pronto a restituirmi il periodo sospeso, il fiato compiaciuto di una parte abbandonata e intensamente desiderata». Qui è esemplificata la virtuosistica capacità di astrazione di Mello, con i binari che «entravano già nell'argomento», e i palazzi che «si riconoscevano nei soggetti distanti del tramonto». Di Milano il poeta non s'incanta per l'attivismo del rumore, bensì, come in questa Entrata, legge miti che sfuggono ai più: «Esco dalla posizione del silenzio per cercare il fiume nato dalle caverne misteriche, la cerimonia del tempo liquido sopra la variabilità dei rilievi presenti per celebrare l'altro silenzio come quiete che si accosta alle ore… per gli estremi piani erranti». Giustamente Gaspari richiama «valore e senso della parola che il lettore (è lui l'Edipo chiamato a sciogliere il dilemma) non può identificare che con il senso stesso dell'esistere. Difficile pensare a un rapporto più diretto del poeta con la parola, parola che la restituisce al suo significato originario, senza ulteriori mediazioni, verso o prosa che sia». Non è l'operazione ungarettiana di enucleazione della parola per riconsegnarle la propria densità di significato: è la parola che esprime l'esistere perché «il nostro essere comincia a vivere solo quando la parola può costruire l'essenza».