Risuona l'eco del «Requiem tedesco» di Brahms diretto dall'ispirato Kempe
Kempe riporta questo capolavoro assoluto nell'alveo della tradizione classica di scuola germanica, in un caleidoscopio sonoro che riflette nel contempo echi del passato e proiezioni nel futuro. Come non avvertire infatti la mano salda del sommo Bach nel modo con cui il direttore dipana le trame contrappuntistiche dell'imponente "fugato" nel finale del terzo movimento («Signore, insegnami dunque che una fine deve appartenermi») oppure l'ombra dell'impronta beethoveniana nel carattere trionfale dell'episodio sinfonico-corale del sesto brano («Perché non abbiamo qui una città stabile, ma cerchiamo quella a venire»), dopo che il baritono ha ribadito l'adempimento della promessa nel giorno della resurrezione finale; o ancora un evidente presentimento della temperie wagneriana, quando nella seconda sezione («Perché ogni carne è come erba») si impone l'incedere maestoso di una sorta di marcia funebre ritmicamente scandita dai lugubri colpi di timpano, a esprimere l'inesorabile richiamo alla corruttibilità della materia.
Ma è tutto sempre e solo riconducibile al genio di Brahms l'impianto generale dell'opera, alla sua sapiente scrittura e alla più sentita ispirazione, come dimostrano i commoventi affreschi del quarto («Come sono amabili le tue dimore») e dell'ultimo movimento dove, sul ritorno dello stesso motivo tematico posto in apertura, il coro suggella il Requiem tedesco con le parole tratte dall'Apocalisse di San Giovanni: «Beati fin d'ora i morti che muoiono nel Signore. Sì, dice lo Spirito, riposeranno dalle loro fatiche, perché le loro opere li seguono».