Rispetto per le vittime, ma l'ergastolo non serve
In Italia esistono due tipi di ergastoli. C'è quello cosiddetto semplice, che dà la possibilità al condannato di uscire, se ha mostrato di meritarlo, dopo trent'anni; e dopo quindici, a metà pena, per qualche permesso. Molti altri nostri detenuti hanno invece l'ergastolo "ostativo": il più duro, quello che non prevede, fino alla morte, né permessi né semilibertà. Recentemente la Corte costituzionale ha sollecitato il Parlamento a rivedere entro maggio del prossimo anno la norma sull'ergastolo ostativo, in quanto «incompatibile» con la nostra Costituzione. Spero vivamente che ciò avvenga. Ritengo infatti che sia ora di umanizzare l'ergastolo, anche quello ostativo. È necessario il superamento della legislazione d'emergenza, il giudice deve tornare ad essere il garante della legalità. Ma la legalità va recuperata, innanzitutto, da parte dello stesso legislatore.
Un detenuto mi ha confidato: «Non sono uno stinco di santo. Ai miei figli dico sempre che ho sbagliato. Un giorno uno dei due, aveva 15 anni, fu trovato dalla mamma con uno spinello. Allora gli confidai, per la prima volta perché non lo sapeva, che stavo scontando l'ergastolo. Gli spiegai che anch'io avevo cominciato con piccoli reati. Lui si mise a piangere e mi abbracciò. Se sono stato un buon padre, è perché non ho nascosto le mie responsabilità». Però poi ha aggiunto : «Se penso mai al suicidio? Tutte le sere e tutte le mattine. Nella mia condizione... Chi si uccide qui dentro, è perché ama così tanto la vita che non sopporta di vederla appassire».
L'ergastolo è infatti una "medicina" tanto forte da uccidere il peccato e il peccatore. O meglio, più il peccatore che il peccato. La perpetuità della pena detentiva, il suo essere destinata a non finire mai, cambia radicalmente la condizione esistenziale del detenuto, il suo rapporto con se stesso e con gli altri, la sua percezione del mondo, la sua raffigurazione del futuro. Come tale l'ergastolo non è comparabile con la reclusione temporanea, così come non lo è la pena di morte. È un'altra pena, appunto, "capitale". Si arriva infatti a pensare e a scherzare sul fatto che morire prima del tempo è un guadagno e un "dispetto" allo Stato, perché è atroce continuare a vivere e a soffrire senza speranza e senza misura. Si può stare in prigione tutta una vita, ma non certo con il pensiero di starci tutta la vita.
Padre Stimmatino, cappellano
Casa circondariale maschile
"Nuovo Complesso" di Rebibbia