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Riprendere a chiedersi con sincero interesse “come stai?”

Marina Corradi domenica 15 settembre 2024
Ascuola la professoressa di inglese ci spiegava che quando un inglese ti chiede: “How are you?”, come stai, è buona educazione rispondergli a tua volta soltanto: “How are you?” La cosa mi meravigliava, perché a quei tempi da noi, se qualcuno ti chiedeva come stavi, si rispondeva “sto bene, grazie”, oppure ho il mal di schiena, o la febbre. Nell’Italia della mia adolescenza il “come stai” era ancora una domanda. Quell’abitudine anglosassone mi pareva algida. Comprensibile forse in una metropoli come Londra; ma da noi, nelle province e anche nei vecchi quartieri di Milano, come stava il tuo vicino interessava ancora. Ora anche fra noi il “come stai” sembra ridotto a una formalità. Tendenzialmente si dice sempre “bene”, anche o ti acceca il mal di testa, o ti stanno sfrattando. “Bene”, si sorride con aria non del tutto convinta – si usa così. Turba però scoprire che anche nelle case si sta allargando questa non-comunicazione. La famiglia sterminata a coltellate da un marito, per i vicini intervistati in tv era spesso “tranquillissima”, “mai un litigio”.
L’adolescente che senza una spiegazione si toglie la vita, anche lui era un ragazzo sì un po’ riservato, ma sempre gentile. Anche il ragazzo di Paderno Dugnano che senza un’apparente ragione una notte si è alzato ha ucciso il fratellino e i genitori, non aveva mai dato problemi. Per i compagni un amico leale, per i vicini quella era una famiglia felice, anzi invidiabile. E tanta normalità, dopo ciò che è accaduto, sconvolge. Al di là della tragedia lombarda – che purtroppo si replica ormai, con modalità familiari diverse, con frequenza allarmante – viene da chiedersi se quel rispondere “bene”, sempre e comunque, non sia il paradigma di un nuovo tipo di rapporto. “Bene”, comunque: perché sai o credi che all’altro non interessi davvero come stai. Anche in famiglia, in quelle famiglie laboriose in cui si esce tutti di corsa alle otto per la scuola o il lavoro, l’ultimo che si attarda – perché forse non ha proprio voglia di uscire – si può convincere che il suo malessere non interessa a nessuno. Soprattutto se è un ragazzo. Risponde “tutto ok”, fa colazione, apre lo smartphone: tutto normale, ci si rassicura, e si corre al lavoro. La sera poi si è stanchi, e lui esce, o c’è un serial in tv. Non è mai il momento per parlarsi. Per ascoltarsi oltre la banalità. Per litigare, magari. Quanto sani sono certi litigi fra padri e figli, quando i figli crescono, e naturalmente devono staccarsi, diventare altro. Sia da figlia che da madre e moglie, ammetto di avere litigato tanto. Anche troppo. Venivo da quella cultura post sessantottina che aveva almeno il pregio di voler dire “tutto”, scodellare, anzi tutto, almeno fra compagni e amici. “Parliamone, compagni”, era un mantra di cui oggi sorrido. Però, non era così male. Era liberatorio. Chi poi riteneva i propri pensieri indicibili cercava l’aiuto di uno psicoterapeuta, cui potevi raccontare qualsiasi cosa, sia pure a pagamento. I preti, e soprattutto la confessione, dalla mia generazione erano spesso snobbati, giacché chiamavano “peccato” quella che per noi era libertà. Se penso però alle generazioni precedenti, abituate a confessarsi nella coscienza di un male fatto, o nell’avvertire voglia di vendetta e di violenza, mi chiedo quante solitudini e quanti mali siano state alleviati nei confessionali. Quante parole, pronunciate, si siano scaricate della loro potenzialità, e non siano state messe in atto. Mi colpisce, del 17 enne lombardo, come appena arrestato abbia parlato, finalmente, abbondantemente, del suo sentirsi estraneo a tutti: quasi un torrente a lungo trattenuto, che si sfoga in una piena. Se ricominciassimo ad ascoltarci, e ancor più a guardarci negli occhi, oltre le parole. Gli occhi, sono eloquenti. Quelli dei figli, quelli dei nostri vecchi. Ricominciare a guardarli, e, quando si chiede “come stai?”, chiederlo davvero. © riproduzione riservata