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Ripensare i referendum: più facili farli, ma invano

Stefano De Martis domenica 29 maggio 2022
In occasione dei referendum abrogativi - e quelli in calendario il prossimo 12 giugno non fanno eccezione - la questione del raggiungimento o meno del quorum è diventata ormai prevalente rispetto al giudizio di merito sui quesiti. Certo, il fatto che sia la stessa Costituzione a fissare un quorum per la validità di questo tipo di consultazione – deve votare «la maggioranza degli aventi diritto», recita l'art. 75 – implicitamente rende la non partecipazione un'opzione possibile oltre al Sì e al No. Ma se in gioco non è la legittimità dell'astensione, la sistematica enfasi sul quorum può anche essere letta come sintomo di una disfunzione. Dall'inizio del secolo a oggi soltanto i referendum del 2011 (quelli su acqua e nucleare, per intenderci) sono riusciti a raggiungere la fatidica soglia della metà più uno degli elettori, con la quota dei Sì intorno al 95 per cento. In pratica sono andati alle urne solo i favorevoli all'abrogazione e lo hanno fatto in misura tale da rendere valida la consultazione popolare. Nel 2000, 2003, 2005, 2009, e nel più recente 2016, il quorum è rimasto lontanissimo, così lontano che se anche fosse stato possibile scontare dal computo l'astensionismo strutturale (quelli che non votano a prescindere) l'obiettivo non sarebbe stato raggiunto.
Il fenomeno dell'incidenza crescente dell'astensionismo strutturale è tuttavia innegabile e rischia di compromettere la funzione stessa dell'istituto referendario. Si è determinata una situazione paradossale. Il numero di firme necessario per attivare la consultazione (500 mila) è diventato nel tempo un vincolo assai meno esigente di quanto avessero calcolato i costituenti: nel 1948 gli elettori erano circa 29 milioni e oggi sono più di 50. Se a questo si aggiunge la possibilità recentemente introdotta di raccogliere firme anche in forma digitale, bisogna prendere in considerazione la prospettiva insidiosa - per gli equilibri istituzionali - di una banalizzazione e moltiplicazione abnorme dei referendum. Al momento le norme concepite per evitare la sovrapposizione con le elezioni politiche hanno reso sostanzialmente impraticabile l'avvio di nuove iniziative referendarie almeno fino al 2024, dopo si vedrà.
Da un lato, quindi, si allargano le maglie e si rende più facile il ricorso ai referendum, dall'altro, però, si mantiene invariato il quorum dei votanti. La «maggioranza degli aventi diritto» richiesta dall'art.75 oggi può diventare un muro invalicabile a causa dell'elevato astensionismo di base. Alla Costituente, il testo elaborato dalla II Sottocommissione prevedeva una soglia pari ai due quinti degli aventi diritto. In Assemblea plenaria ci fu chi propose di elevarla ai tre quinti, paventando l'eventualità che una ristretta minoranza di elettori potesse abrogare una legge votata a larga maggioranza dal Parlamento. Alla fine fu approvata una formulazione mediana, quella che troviamo appunto nell'art.75 della Carta. È possibile trovare anche oggi un punto di equilibrio aggiornato che, nello spirito dei costituenti, valorizzi il referendum abrogativo come importante strumento di partecipazione e lo renda effettivamente alla portata dei cittadini. Le scorciatoie plebiscitarie e antiparlamentari sono un grave pericolo nella stagione dei populismi, ma anche mortificare uno degli strumenti di democrazia diretta previsti dalla Costituzione non fa bene alla nostra Repubblica.