Trent'anni ad "Avvenire" e ora meno di trenta righe fisse in prima pagina, queste. È un rettangolo di carta prezioso quello che da oggi e per tre mesi posso iniziare a sporcare tutti i giorni con parole mie. Un privilegio che mi è stato affidato, ubriacante, da cerchi alla testa. Ma il difficile è che qui non è il pensiero che conta. O meglio, conta eccome, ma occorre tradurlo quel pensiero, e farsi capire. Perché c'è una sola cosa che si scrive solo per se stessi, la lista della spesa. Tutto il resto lo scrivi per dire qualcosa a qualcuno. Ma in questi tempi obesi di parole a caso, dire qualcosa di utile, o almeno di sensato, non è semplice. E invece vorrei raccontare cose belle, perché esistono ancora. Cose che mi piacciono, e che spero piacciano anche a voi. Come il pudore di chi ancora non ha capito come raccapezzarsi su questa terra. O l'umiltà di chi sa chiedere senza spingere, la luce del sorriso di una figlia, la meraviglia di chi si stupisce di fronte a un tramonto, la sfrontatezza di due ragazzi che si baciano su una panchina, la concentrazione di chi legge un libro alla fermata dell'autobus. Mi piace chi chiede scusa. Mi piace un ricordo che mi viene a trovare. E chi combatte ogni giorno per essere felice. L'ordinario che diventa straordinario insomma, perché nessuno spettacolo è più incredibile della realtà. Ed è pure gratis.