Il 18 e il 19 aprile del 1993 – sono passati giusto trent’anni – ben il 77% degli elettori si presentò ai seggi per votare su otto referendum abrogativi. Un’affluenza che non è stata più raggiunta e neanche lontanamente sfiorata. Uno degli otto quesiti era destinato a lasciare un segno profondo nella storia politica italiana, inaugurando quella “stagione del maggioritario” in cui con alterne e spesso contraddittorie vicende ancora oggi ci muoviamo. L’operazione, dal punto di vista tecnico, era stata curata con chirurgica precisione da esperti della materia, come Peppino Calderisi, Augusto Barbera, Stefano Ceccanti, Giovanni Guzzetta. Abrogando alcune parole della legge elettorale vigente per il Senato, il testo che risultava era coerente e immediatamente applicabile – secondo i criteri fissati dalla Corte costituzionale per l’ammissibilità dei referendum – e disegnava in buona sostanza un sistema uninominale maggioritario. I Sì furono oltre l’82% e dopo pochi mesi, sull’onda di quel risultato travolgente, il Parlamento approvò per entrambi rami del Parlamento una legge in base alla quale i tre quarti dei seggi venivano assegnati in collegi uninominali con il sistema maggioritario a turno unico. Il proporzionale restava circoscritto al quarto residuo per valorizzare comunque la rappresentanza e il pluralismo dei partiti. I puristi del maggioritario storsero il naso, ma quella legge elettorale – nota alle cronache come Mattarellum – è la migliore che abbiamo avuto negli ultimi tre decenni e non perché sia stata ribattezzata con il nome dell’attuale Presidente della Repubblica che ne fu il principale artefice.
Il prologo di questo passaggio epocale si era registrato due anni prima con il successo del referendum che aveva aperto la strada alla preferenza unica. Nel 1991 l’oggetto specifico della consultazione era poca cosa, a ben vedere, ma gli italiani colsero il senso di quell’iniziativa che puntava a innescare un percorso di riforme e di moralizzazione della vita pubblica. Ci fu una mobilitazione trasversale e policentrica che vide in campo intorno alla figura di Mario Segni pezzi di ceto politico, elementi del sindacato e dell’imprenditoria, intellettuali ed esponenti della società civile, semplici cittadini, con un contributo significativo dell’associazionismo cattolico. Ovviamente quando si attivano fenomeni di questa complessità le motivazioni possono essere molto diverse e perfino contrapposte tra loro. Così come sono da mettere in conto i tentativi di strumentalizzazione per fini non corrispondenti all’ispirazione più genuina. Tuttavia, non bisogna dimenticare come in quegli anni – nel 1989 era caduto il Muro di Berlino – si fosse sviluppato un fervore partecipativo sorretto dall’idea di una diffusione inarrestabile della democrazia in tutto il mondo. Al di fuori di questa percezione non si capirebbe il vento delle riforme che allora investì la società italiana. Purtroppo l’illusione delle “magnifiche sorti e progressive” non è durata a lungo e oggi ci dibattiamo drammaticamente nel problema opposto. Ma per difendere la democrazia non bisogna rinunciare né alle riforme né alla partecipazione, anzi. È certo però che la sfida delle autocrazie impone un supplemento di riflessione e di lungimiranza nelle scelte che si andranno a compiere.
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