Razzismo, pallacanestro e un autobus da non perdere
Nel novembre del 2017 a Torino (eh, sì proprio la mia città, mica l'Alabama) su un autobus del mattino pieno di studenti, un signore sulla sessantina (che dunque apriva i suoi occhi sul mondo proprio mentre Rosa Parks veniva arrestata) ha preso a calci una ragazzina di colore insultandola nel solito modo idiota e qualunquista. La ragazzina in questione si chiama Giulia e gioca a basket, peraltro molto bene. Giulia è sconvolta, fortunatamente si confida con le sue compagne di squadra. È proprio il presidente della sua società sportiva ad accompagnarla a denunciare il fatto. Poche ore dopo, la nazionale femminile di basket, lo sport del cuore e del futuro di Giulia, gioca una partita valida per le qualificazioni ai Campionati Europei del 2019. Coach Marco Crespi fa esordire Olbis Futo Andrè, pivot di grande talento, nata il giorno di Natale del 1998 vicino a Bologna. È una ragazza italiana di colore, che veste, con orgoglio ed emozione, la maglia azzurra. Lei risponde alla fiducia con un'ottima partita, segna 12 punti e prende 12 rimbalzi, l'Italia (anche grazie a lei) vince, ma questo è un dettaglio. Perché coach Crespi decide, a match concluso, di mandare «una carezza a Giulia», dedicandole proprio quell'esordio vincente. Anzi, fa di più: pubblica una fotografia dove metà del suo viso (Marco Crespi di bianco non ha solo la pelle, ma anche una lunga barba!) si dissolve nella metà del viso di Olbis Andrè. È un gesto simbolico, certo, ma è un modo di non tacere, di schierarsi, di far sentire la propria opinione.
Essere Commissari Tecnici di una nazionale (ho avuto, fra Finlandia e Italia, l'onore di ricoprire quel ruolo per 11 anni) significa parlare a migliaia di ragazzi che ti seguono, che ti ascoltano, che giudicano ogni tuo gesto e per i quali sei un modello di riferimento. È una responsabilità meravigliosamente grande e, forse, non è per tutti. Spesso viene più facile non schierarsi, non esprimersi, pensare solo alla prestazione, certi che solo da quella si sarà giudicati. No, non è così. E lo dico con ancora più forza a poche ore di distanza da una, a suo modo, storica mancata qualificazione ai Mondiali nello sport più amato nel Paese. Essere Commissari Tecnici comporta la necessità di schierarsi, di definire con precisione ciò che si ritiene giusto e ciò che si ritiene sbagliato, con l'obbligo di saperlo spiegare tanto a un ragazzino del minibasket, quanto a un ottantenne che gioca nel campionato Master.
Quel volto diviso a metà, che mette insieme la barba bianca di Coach Crespi e la pelle nera di una ragazza diciannovenne, è un capolavoro di intelligenza e di bellezza. Complimenti a lui e alla Federbasket, che hanno regalato una lezione indimenticabile a tutti noi che avremmo potuto essere passeggeri dell'autobus di Giulia. Quello di Rosa Parks è tutt'ora esposto all'Henry Ford Museum a Dearborn, nel Michigan, ma tanti autobus proprio come quello, passano continuamente sotto al nostro naso. Troppo spesso facciamo finta di non vederli, aspettando risposte da qualcun altro.
Bertolt Brecht, in una splendida poesia che si intitola A chi esita, racconta di coloro che preferiscono continuare a maledire l'oscurità piuttosto che accendere una candela e che, di fronte alle difficoltà, agli errori, alle menzogne, alle forze che scemano si domandano su chi possiamo ancora contare. Non aspettarti nessuna risposta oltre la tua, chiude il poeta, proprio come ha fatto un coach che, in un attimo, è diventato un Maestro. Già, proprio con la M maiuscola.