Capelli bianchi alla Albert Einstein, maniche di camicia, jeans, scarpe da ginnastica e bretelle a strisce come la bandiera americana. Federico Rampini, giornalista e scrittore, si presenta così per il suo primo dei due appuntamenti con Inchieste da fermo, il martedì sera su La 7, sempre più succursale del «Corriere della Sera» (magari il patron di entrambe le testate, Urbano Cairo, la intenderà come ottimizzazione delle risorse). Di sé Rampini dice di essere un «nomade globale che di solito sta nell’altra parte del mondo», ma che ora ha deciso di fermarsi qui per portarci «in viaggio nei due maggiori imperi del nostro tempo, America e Cina, alla ricerca della loro vera natura, le loro forze e le loro debolezze», aiutandosi «con un tablet e un totem che ricorda lo schermo di uno smartphone». In quanto alle grandi bretelle (che sicuramente la prossima settimana saranno rosse), diciamo che Rampini non è il primo a farne una tenuta d’ordinanza: un suo collega prima di lui ci aveva persino intitolato una rubrica. Con il tablet, invece, finge di dare il via ai vari filmati con interviste e testimonianza che per un’ora buona alternano in remoto una sorta di monologo professorale in studio di fronte ad alcuni studenti universitari (quasi tutti o tutti di Bologna). I primi interventi dal pubblico e gli ospiti in carne ed ossa (nel caso specifico Emma Marcegaglia e Pupi Avati) arrivano dopo una settantina di minuti nell’economia di un programma che supera le due ore (forse troppe per un’inchiesta, appunto, «da fermo»). Per il resto Rampini tende a far valere la sua indubbia competenza ricordando spesso che da 23 anni vive negli Stati Uniti di cui è diventato anche cittadino. Di fatto si presenta come americano e in fin dei conti difende quell’America «organismo vitale da guardare con un po’ più di rispetto di quanto non siamo soliti fare».
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