C'è un po' di Woody Allen e perfino di Fellini, oltre all'ovvio Sergio Leone, in "C'era una volta a... Hollywood", ultimo film di Quentin Tarantino strapazzato dalla critica (italiana) e sacrosantamente adorato al botteghino. Storia affettuosa nella luce del tramonto, grande performance della coppia Di Caprio-Pitt (più bravo e bello di sempre), splendida fotografia, fantastica colonna sonora, i soliti inimitabili dialoghi, giusto quel poco di splat per prendersi in giro e non scontentare i fan. In una parola, il cinema. Di uno che forse ama più vederlo che farlo e perciò non tira mai sòle. Fine della recensione, non è il mio mestiere. Consentitemi però un piccolo e garbato incrocio di lame con Natalia Aspesi, che parlando del film stigmatizza l'«efferato maschilismo» di Quentin. Direi al contrario che Tarantino è quasi-femminista. Non tanto e non solo per quelle sue memorabili personagge: Jackie Brown, l'eroina antinazista in "Bastardi senza gloria", le ragazze di "Grindhouse", la Sposa in "Kill Bill". Lo sguardo di Quentin sugli uomini e le loro ossessioni – la violenza, il sangue, le armi, la guerra, i grand guignol, le rese dei conti – è sempre ironico e autoironico. Il suo maschio senza freni è grottesco. È il comico finale di partita della virilità tradizionale. Senza contare, in quest'ultimo film, il cavalleresco omaggio a Sharon Tate (non posso spoilerare!).