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Quello che i libri (non) dicono sulla vita e sull'amore

Roberto Righetto giovedì 16 novembre 2017
Ma i libri fanno bene davvero? Si possono ritenere una medicina dello spirito? A conclusione di questo itinerario ove abbiamo presentato 50 libri importanti per la formazione del cristiano è il caso di chiederselo. Ricorda spesso il critico George Steiner che la cultura da sola non salva dalla barbarie. Giudizio condiviso da un autore che come pochi in Italia ha amato i libri, Giuseppe Pontiggia, morto nel 2003 e la cui lezione è ancora viva, come dimostra l'attenzione dell'editoria alla sua opera (si veda il recente Dentro la sera, apparso da Belleville, che riunisce 25 conversazioni radiofoniche sull'arte dello scrivere). È vero che, come tante altre volte, in questo volume egli sostiene che «il libro può essere un'esperienza straordinaria, un piacere che ci invade, un vivere mondi paralleli, un viaggio pieno di scoperte». Ma allorché ricevette il premio Pen Club nel 2001 non esitò a dire: «Credo sempre nel linguaggio come nella risorsa più importante che l'uomo abbia per capire ed esprimere il mondo. Però ci sono anche cose che passano nel silenzio, ci sono cose che non vengono e non verranno mai dette, ma che sono fondamentali». Pontiggia aveva in mente i temi della vita e della morte, della salvezza e della redenzione: così, da uno scrittore che il critico Ermanno Paccagnini ha definito intriso di «misticismo laico», scaturì un elogio del silenzio.
E forse non è casuale che un bibliomane come lui abbia pronunciato la frase dopo aver ritirato il premio per il romanzo Nati due volte (Mondadori 2000), l'opera in cui racconta, in un corpo a corpo a volte ironico a volte turbato, il rapporto col figlio Paolo, disabile dalla nascita. Libro straordinario, commovente, con aneddoti di vita sconcertanti su medici incompetenti e crudeli. Come lo specialista consultato 13 anni dopo la nascita e che non dà ai genitori nessuna speranza di miglioramento, provando «un brivido di piacere nel rivelarci l'inutilità di un decennio di lavoro»; fortunatamente, la realtà dei fatti ha dimostrato che «era lui che era sbagliato». Ma lo scrittore mette a nudo anche le sue difficoltà nell'affrontare la crescita del figlio, il suo ritrarsi a volte, a differenza della moglie/madre che non molla mai.
Nel passo iniziale padre e figlio salgono sulle scale mobili e Paolo all'improvviso non ce la fa e cade; una piccola folla li osserva, i due poi si siedono a un tavolo e, quando si rialzano, Paolo dice allo scrittore, mentre compie alcuni passi ondeggiando: «Se ti vergogni, puoi camminare a distanza». O l'episodio finale, in cui l'autore osserva da lontano il figlio che avanza da solo, nella via dove abitano: «Chi è quel ragazzo che cammina oscillando lungo il muro? Lo vedo per la prima volta, è un disabile. Penso a quella che sarebbe stata la mia vita senza di lui. No, non ci riesco».
Nel libro compaiono poi riflessioni sul male e sul bene, sul senso del volontariato e anche sulla letteratura. Pontiggia si chiede come mai sia così difficile rappresentare il bene e annota come anche i grandi autori siano dovuti ricorrere a escamotage: Manzoni all'ironia, Cervantes alla follia, Dostoevskij all'idiozia. Altre volte il nostro Peppo tenta timidamente di farsi esploratore dell'Assoluto e dedica alcune frasi alla preghiera, al miracolo e alla guarigione, in passato da lui guardate con sospetto. E a un certo punto riconosce di aver cambiato idea: «Forse preghiera e guarigione convergono, la preghiera è guarigione: non dal male, ma dalla disperazione. Perfino nel momento in cui si è soli, la preghiera spezza la solitudine del morente. Ancora oggi mi mette in contatto con una voce che risponde. Non so quale sia. Ma è più durevole e fonda della voce di chi la nega. Tante volte l'ho negata anch'io, per riscoprirla nei momenti più difficili. E non era un'eco». Parole che sono risuonate ai suoi funerali, lette dal cardinal Ravasi.
Si può certamente dire che Nati due volte è un'opera unica, per delicatezza ma anche per crudezza, nel trattare la questione dell'handicap. Che sta alla pari con un altro romanzo, La giornata di uno scrutatore di Italo Calvino, non a caso definita dal critico letterario di Avvenire Giuseppe Bonura «il miglior romanzo cristiano del '900», anche se scritto da un non credente.