Il sole delle tre picchia sul sagrato del Duomo. Il carro funebre spalanca il portellone sulla bara coperta di fiori. Sventolano orgogliose le bandiere del Milan schierate in prima fila davanti alla folla: “Silvio! Silvio” gridano quelli di sotto, come chiamando indietro un compagno di giochi che lasci il campo anzitempo. Poi, scortato da un picchetto in alta uniforme, il feretro dal sole della piazza entra, dal portone spalancato, nell’ombra del Duomo. Anche Silvio Berlusconi è arrivato, pensi, e tu che non l’hai mai conosciuto provi una malinconia che non ti aspettavi. Un uomo, certo, se ne è andato; ma anche un pezzo di storia italiana. Gli anni Ottanta, il terrorismo alle spalle, e quasi una voglia di riprendersi il tempo nella paura. La Milano da bere, la moda, le tv private; soldi, le prime modelle, le prime “veline”. La vecchia Rai colta di sorpresa dalla logica dell’audience, del mercato: e l’onda dei talk show e delle “soap” e delle Isole dei famosi, che velocemente ci avrebbe cambiati. Il motore primo di questa trasformazione, in Italia, è l’uomo nel feretro ormai davanti all’altare, le massime cariche della Repubblica schierate e l’arcivescovo Delpini a celebrare: perché oggi un pezzo della nostra storia, ci sia piaciuta o no, prende commiato.
Ti colpisce, nel sole di giugno, quel feretro che varca la linea d’ombra della Cattedrale. Perché l’era di Berlusconi almeno a Milano ha celebrato gli affari, la ricchezza, la fama, la bellezza, la giovinezza. La giovinezza ad ogni costo, si sarebbe detto guardando negli ultimi anni Berlusconi in tv, il cerone sul viso, ostinato nel nascondere l’età. Ostinato nel negare il tempo che passa, e la morte che si avvicina. Ma anche Silvio, l’eterno vincente, il giovane per sempre, eccolo arrivare in Duomo. E lo guardi con malinconia: in fondo quei suoi trent’anni in auge sono la metà della vita tua. Intorno Milano ti è irriconoscibile, da quando eri ragazzina. Le vetrine del lusso assediate da folle di stranieri – quest’onda precipitata su una città, in cui una volta non veniva nessuno. Milano come un brand, come un marchio che moltiplica i prezzi delle case e della vita: alla radice prima di questa metamorfosi c’è anche e ancora Berlusconi. Ma tu, che i brand li detesti e rimpiangi la città di tute blu intravista da bambina, non sei in questa piazza con astio. Semplicemente quell’uomo ci credeva, alla giovinezza per sempre, alla folla acclamante per sempre, al vincere per sempre (come brandiva trionfante la Coppa dei Campioni, in una lontana felice giornata a San Siro). Ed eccolo, lo hanno portato ora in Duomo: e stai come uno spettatore che veda precipitare dall’alto il più abile dei funamboli. Ti dispiace in fondo che l’uomo che credeva di non essere vecchio mai, sia morto. Ti addolora nella sua storia quella componente di illusione che c’è nella vita di ognuno, finché si è giovani, a meno che dal principio non ci si fondi su di un’altra roccia. Su quel Dio cui mille anni fa si innalzavano straordinarie cattedrali, in cui oggi entrano quasi solo i turisti.
Ma quel Dio, ne sei certa, è buono. Ama, degli uomini, la voglia di vivere ed essere felici, anche a costo di sbagliare. Ama, forse, perfino l’ansia di chi in vite dense e instancabili cerca di scordare che infine si muore. Tanto, lui alla fine è lì ad aspettarci; e non dimentica, lui, un solo istante di bene fatto. Perciò mi rattristano certi commenti astiosi di cristiani in queste ore: del tipo «Che vergogna, un pluridivorziato, un p…, e gli hanno concesso il Duomo». Quasi non avessero mai sentito queste parole: «Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia». E vorrei potere essere invece fra quelli sotto le bandiere rossonere che sventolano in piazza: fedeli, un po’ bambini ancora forse, quelli che gridano “Silvio!”, come quando un compagno lascia, richiamato a casa, il campo dell’oratorio, e ancora non è sera.
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