«Noi non abbandoniamo nessuno, siamo in Sudan da 150 anni, da quando padre Comboni è vissuto e morto qui». Il comboniano intervistato ieri su “Avvenire” dalla collega Lucia Capuzzi è, insieme a numerosi suoi confratelli, e a salesiani, e a una decina di suore missionarie, uno di quelli che restano. Due aerei hanno portato via gli ultimi italiani – eccezion fatta per alcuni membri di gloriose Ong – che come ognuno di noi farebbe volevano tornare in patria. Spari, carneficine, rastrellamenti, nello scenario abituale della più feroce guerra civile. Ogni bussare alla porta può essere quello di chi ti ucciderà, senza una ragione. Di notte non si dorme, l’orecchio teso al passo di chi si avvicina, per strada.
E tuttavia “quelli”, una cinquantina forse di uomini e donne, restano. È misterioso per noi, gente di un Paese in pace, questo voler rimanere nel cuore di un inferno. Già è abbastanza singolare, agli occhi nostri, la scelta di chi lascia i suoi, la sua terra e se ne va dall’altra parte del mondo, in luoghi poveri e dimenticati da tutti. (Gente strana, i missionari: migliori certo, ma altri da noi. Non del tutto comprensibili). Ma che, poi, alcuni scelgano di non partire nemmeno di fronte alla più sanguinosa delle guerre, è qualcosa che ci percuote come uno schiaffo. Perché? Non siete uomini, non avete paura?
Ho conosciuto, viaggiando per Avvenire, diversi missionari. Dei comboniani ho una venerazione: quelli che ho incontrato negli angoli più remoti del mondo erano vecchi, ma forti e saldi come querce centenarie. A Gulu, in Uganda, all’inizio del Duemila (l’ebola era passato di lì pochi anni prima, la atroce guerra del Lord Resistance Army di Joseph Kony c’era ancora) passai una notte nella missione comboniana. Seguii un fratello con i capelli bianchi che conduceva, al tramonto, le donne e i bambini in una chiesa in mezzo alla foresta, dove cercavano rifugio dai guerriglieri. Un povero rifugio, le mura attorno alte un metro e mezzo. Le donne recitavano il rosario prima di dormire, tra nidiate di bambini che correvano, e le stelle sopra di noi erano immense. Il comboniano restava ogni notte con loro ad aspettare l’alba – oppure, imprevedibile e feroce, un altro destino.
Non trovai nella sua vecchia faccia un’ombra di paura. All’alba andai a bere il caffè con gli altri suoi compagni. Mi raccontarono di come uno di loro fosse stato assassinato, non molto tempo prima. Mi sbalordiva come tuttavia fossero sereni, sorridenti. Nel centro della miseria e della violenza, lieti: come chi non ha nulla da perdere, giacché quello che conta lo ha nel cuore.
E a Banda Aceh, Indonesia, appena dopo lo tsunami del 2005? Pareva l’apocalisse in quella distesa di fango nero, nei ponti divelti, nei Tir accartocciati come giocattoli di latta. E, ovunque, cadaveri che galleggiavano. C’era un comboniano, uno solo, romagnolo, grande come un armadio, in giro su una jeep coperta di fango. Benediva i morti e dava da mangiare ai vivi, instancabile, dall’alba a notte. Un gigante.
Spesso questi missionari partiti a vent’anni non vogliono tornare nemmeno per morire. Ne incontrai uno alla casa madre comboniana a Verona, lo avevano costretto a rientrare, aveva un cancro in fase terminale. Non dimenticherò, nella stanza nuda, sulle lenzuola candide, la sua faccia scavata dalla malattia: pareva quella di un Cristo di El Greco. A tratti incosciente, poi di nuovo lucido, e assolutamente sereno. Sul comodino un rosario e un orologio vecchissimo, tutto ciò che possedeva. «Che Dio benedica lei e la sua famiglia», mi salutò, col suo poco fiato. Come si fa, mi chiedevo turbata tornando a Milano, a essere così lieti nella morte?
Altri uomini, mi dicevo. Anime di un’altra caratura. Cristiani fin nel fondo delle ossa. Questi sono quelli che restano: in Sudan e in ogni inferno del mondo. Nulla da perdere – ciò che hanno è nel cuore, e nessuno glielo può rubare.
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