Vite digitali. Quelle rivelazioni sul caso «Trump-social»
Nelle nostre giornate si susseguono velocemente così tante cose che spesso finiamo con l'archiviare troppo in fretta questioni molto importanti. Prendete la questione della sospensione dell'ex presidente Trump da molti social. Se pensiamo che la cosa sia finita solo perché alla Casa Bianca è arrivato Biden, rischiamo di fare un grosso errore. Perché quella vicenda non riguarda solo Trump, ma la libertà di espressione di tutti e la responsabilità di ognuno di noi. Riguarda il potere dei social, la democrazia e la capacità politica dei governi.
Sulla vicenda, in questi giorni, i signori del digitale si sono limitati ad alcune dichiarazioni ufficiali, senza entrare nel dibattito in maniera approfondita. Almeno fino a poche ore fa, quando Adam Mosseri, dirigente ai massimi livelli del gruppo Facebook (attualmente è il capo di Instagram), ha accettato di rispondere per un'ora e mezza al giornalista star Nilay Patel.
«Questioni come l'incitamento alla violenza o all'odio non devono essere lasciate alle piattaforme – ha ammesso Mosseri –. Dovrebbero essere sottoposte a regole sottoscritte se non da tutti i governi, almeno dalle più importanti organizzazioni governative e non». Ma attenti: «è impossibile ridurre il rischio a zero. I social media in generale e le app e la tecnologia di messaggistica sono un riflesso dell'umanità. E ci fanno vedere sia cose grandi e meravigliose sia alcune delle cose brutte e pericolose che prima ci sfuggivano». Poi è arrivata una doccia fredda per i sostenitori di Trump: «Non abbiamo in programma di ripristinare il suo account su nessuna delle nostre piattaforme, almeno per i prossimi 15 giorni».
Il giornalista lo incalza: «quanta responsabilità ti senti per ciò che il vostro algoritmo promuove e amplifica sui vostri social?». Mosseri la prende alla larga («la polarizzazione esiste da ben prima del digitale e dei social»), ma poi arriva al punto: «Spesso le aziende si nascondono dietro gli algoritmi. In realtà ciò che fa un algoritmo è ottimizzare le istruzioni che gli hai dato. Quindi, sei responsabile di come lavora. Ma il vero problema non sta in come tratta ogni singolo contenuto social, quanto nell'effetto globale che crea sulla piattaforma».
Più avanti si torna a parlare di Trump, di libertà, di social e di democrazia. «Ci preoccupiamo molto della libertà di parola. E riceviamo molte critiche al riguardo. Ma la libertà di parola funziona davvero solo su una solida base di democrazia. Quindi, quando la democrazia stessa viene attaccata, questo è un grosso problema e in qualche modo cambia le regole anche per noi». Comunque, «penso sia un giorno da dimenticare quando le società di social media devono chiudere gli account del Presidente». Al nuovo governo americano Mosseri promette collaborazione. Ma puntualizza: «Servono linee chiare su quali contenuti siano permessi e quali no. Ma è un equilibrio molto delicato. È un attimo cominciare a censurare le persone».
Poi il colpo di scena: Mosseri ammette che su questioni come le fake news e l'incitamento all'odio «i nostri sistemi sono molto meno sofisticati di quanto la maggior parte delle persone creda». La «macchina» social, per esempio, non sa capire le sfumature e non sa guardare in profondità. «Per questo serve una moderazione composta da un ibrido tra tecnologia e persone (...) È comunque più facile creare un sistema per regolare le immagini di nudo, anche se come sappiamo commette errori, che non per classificare l'incitamento all'odio. Ciò non significa che sia impossibile farlo. Significa solo che ci vorrà più tempo e che faremo più errori».
A noi lettori, alla fine, resta una domanda: quanto tempo e quanti errori possiamo permetterci ancora prima che i danni siano irreparabili?