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Quelle manovre politiche sulla Corte costituzionale

Stefano De Martis domenica 5 maggio 2024
Sono ormai quasi sei mesi che la Corte costituzionale è costretta a lavorare a ranghi ridotti, con quattordici giudici in luogo dei quindici previsti dalla Costituzione. Il 12 novembre 2023, infatti, è cessato il mandato di Silvana Sciarra (che fino a quel momento era anche presidente) e il Parlamento non è stato ancora capace di eleggere un nuovo giudice. Le Camere si sono riunite in seduta comune tre volte – l’ultima il 23 aprile scorso – e il risultato è stato un nulla di fatto. Il reintegro del plenum dell’organo dovrebbe avvenire entro un mese, un termine che nel linguaggio dei giuristi viene definito ordinatorio e non perentorio. Ma il margine ristretto e il fatto stesso che non siano contemplate proroghe per i giudici scaduti dicono chiaramente che in una logica di sistema la sostituzione dev’essere tempestiva. E stiamo parlando di un organo che ha un ruolo cruciale nell’architettura istituzionale della Repubblica. La Corte può operare se sono in carica almeno undici membri. Tuttavia anche la mancanza di un solo giudice si ripercuote negativamente sul suo operato. Sono in questione profili di estrema delicatezza, come per esempio la sovraesposizione del presidente, il cui voto rischia di diventare troppo spesso determinante se i giudici sono quattordici. Più ancora rilevante è la circostanza che vede alterato il sapiente equilibrio disegnato dalla Carta all’articolo 135: i giudici sono nominati «per un terzo dal Presidente della Repubblica, per un terzo dal Parlamento in seduta comune e per un terzo dalle supreme magistrature ordinaria ed amministrative» (vale a dire Corte di cassazione, Consiglio di Stato e Corte dei conti). I problemi, manco a dirlo, nascono con le nomine parlamentari. Non è infatti la prima volta che si verifica un ritardo nella sostituzione e questo finisce per confliggere con il principio di leale collaborazione tra gli organi istituzionali perché non si mette la Consulta in grado di agire nella completezza della sua composizione. Secondo la Costituzione (ancora l’articolo 135), le Camere riunite possono scegliere «tra i magistrati anche a riposo delle giurisdizioni superiori ordinaria ed amministrative, i professori ordinari di università in materie giuridiche e gli avvocati dopo venti anni di esercizio». Persone di consolidata competenza, dice innanzitutto la Carta. Immaginare poi che questa scelta possa avvenire a prescindere dalle sensibilità politico-culturali dei candidati è irrealistico e a ben vedere non è certo un disvalore che si tenga conto del pluralismo presente nella società italiana. Anzi. I quorum necessari (i due terzi dei voti nei primi tre scrutini, i tre quinti a partire dal quarto) indicano che la Costituzione auspica sui nominati un consenso ampio e sarebbe esiziale se la maggioranza forzasse la mano per recuperare a ogni costo i voti che le mancano per arrivare da sola al traguardo. Sarebbe invece un (insperato) segnale positivo se le forze politiche si dimostrassero sin d’ora capaci di raggiungere un accordo, magari tenendo conto anche dei tre giudici che concluderanno il mandato a dicembre. Il rischio è che invece si aspetti quella scadenza per poter avere più margini di manovra nella scelta dei nomi. Ma la Costituzione è una cosa seria e il giudice mancante va sostituito adesso, anche a costo di convocare a ripetizione il Parlamento fino a quando non avrà provveduto. © riproduzione riservata