Quelle corse a nascondino tra una 1100 e un’Anglia
Bastava rannicchiarsi dietro una ruota e schizzare fuori di corsa con tempismo. Beccavo subito Paolo, perché con le mani giochicchiava con il ghiaino: era lui. Il problema era Mario: se restava ultimo e prendeva mezzo metro di vantaggio, faceva liberi tutti. Nascondino rivelava il temperamento dei ragazzini: il temerario abbandonava impavido la tana, il prudente azzardava rare incursioni tornando subito indietro; il paziente si acquattava nell’angolo più remoto e attendeva, immobile, fino a quando restava per ultimo e gli altri lo pregavano di uscire. Bellissimo.Non passava giorno senza un sanguinoso combattimento. Era Mario a decidere la tattica per stanare quei maledetti Apache. Avevamo le Colt, in rari casi caricate con le superbum, infilate nei pantaloni. Chi sparava dichiarava “bang, colpito!” e nessuno osava obiettare nulla: un Apache di meno, sulla parola. Bambini coraggiosi, impavidi, senza paura di niente. Neanche di affrontare la spaventosa discesa sassosa che conduceva al garage dove il signor Rech teneva il suo camion rosso con il muso fatto a nasone. La bici era la mia, una Torpado a scatto fisso, regalo del nonno. Era un palese suicidio buttarsi di sotto sui sassi con una piccola bici a scatto fisso ma noi ci lanciavamo, sapendo di morire, per dimostrare il nostro coraggio, franando al suolo e lasciando sui sassi brandelli di pelle. Le estati vintage erano fatte di favolose croste sulle ginocchia. Poi, un’estate, nella casa del signor Rech non trovai più i tre fratelli Vivaldi. Si erano trasferiti a Rovereto, ci dissero. Un vuoto incolmabile. Finché una sera di qualche estate successiva Mario passò a salutarci. Era salito a Folgaria in motorino. Provai a mostrargli orgoglioso i soldatini Airfix su cui tanto avevamo fantasticato, ma lui gli diede appena uno sguardo distratto. Era davvero grande, Mario. Troppo, ormai.