Davanti agli occhi ogni sera dalla tv i paesi sommersi, le strade crollate, la melma collosa che non defluisce. Ma, adagio, chi ne ha le forze cerca di ricominciare. Spostano gli uomini i materassi fradici, spingono fuori le lavabiancheria che non funzioneranno più. Le donne lavano con cura ciò che si è salvato – un soprammobile alto su un armadio, un quadro.
Arginare lo sfacelo è già un riprendersi: immette in quella china faticosa che è la volontà di vivere, contro l’annientamento. Tuttavia so, per avere visto coi miei occhi terremoti e alluvioni, come le case non sono solo gli arredi e le stanze e il giardino. So che ogni casa è piena di comò e scrivanie fitte di cassetti, e tanto più quanto le case sono antiche. E in ogni cassetto è depositato un piccolo pezzo di vita caro, di cui in cinquant’anni non ci si è voluti liberare. Conosco quei cassetti, la casa dei mie ne era costellata. Foto di bambini ormai vecchi; primi quaderni, con le aste, di scolari remoti; libretti di congedo dal servizio militare, diplomi, biglietti di Natale. Tutte queste carte ingiallite dagli anni stanno strette in scatole che non si aprono mai, se non quando qualcuno in famiglia muore. Allora si rispalanca la scatola del tempo, e nuovi bambini chiedono: ma chi era questo, col cappello da alpino? Bomboniere d’argento con le iniziali intrecciate; foto di classe in bianco e nero in cui ti riconosci a stento, ma ritrovi subito quel compagno biondo e caro – identico, fermo per sempre nei suoi sedici anni. Le scatole delle vecchie cose care sono in ogni casa, almeno dopo qualche anno che ci vive una famiglia. Ne è custode in genere la madre, o una nonna. Per loro, sono un geloso tesoro. Per i figli già significano poco. Per gli estranei, niente.
Allora nella sciagura della Romagna penso anche a questi segreti altari domestici: le storie delle famiglie strette in scatole da scarpe. E lo so come andrà - succede quasi sempre così, l’ho visto a casa dei miei, dei miei suoceri, come in stanze abbandonate dopo un terremoto o un’alluvione. Si cerca di salvare tutti, i malati, i vecchi, e i cani, e i gatti, scoprendo quanto ci sono cari. Se c’è ancora tempo qualcuno corre a prendere le cose preziose – e a volte quel tornare è fatale. Forse non bisogna voltarsi indietro.
Anche nei mesi del Covid ho assistito per certe strade di Milano a sgomberi di abitazioni popolari dove vivevano solo in due vecchi; e ho intravisto, nelle casse gonfie di cartone, ammassati, l’album di pelle di un matrimonio anni Quaranta, rosari, scarpine di neonati lavorate a maglia e ricami a punto erba di bambine. Un altro microcosmo finito, mi dicevo, nella brusca fretta con cui due garzoni affastellavano tutto su un furgone, e via, veloci, alla discarica.
Ho realizzato però che già nella casa in cui abbiamo vissuto con i figli per oltre trent’anni, di queste sacche di memoria se ne sono accumulate non poche. I braccialetti azzurri e rosa dei bambini appena nati in ospedale, per me sono oro. E le lettere di mio padre dal fronte a mia madre non le potrei abbandonare, se non perdendo una parte di me. Quanti tesori nelle nostre case, che per gli altri non valgono niente.
Tornerei, in un terremoto, a salvare i miei ricordi? Sì. Se appena potessi. Anche se forse un pensiero mi traverserebbe, di colpo. Come dice quel passo del Vangelo? «Là dove è il vostro tesoro, sarà il vostro cuore». Qual è il tesoro, in una disgrazia che ci annienta: i cari ricordi, o la scoperta di ciò che conta davvero?
Mi sentirei, fra quelle donne dalle case spezzate, come una pianta cui brutalmente hanno tagliato troppi rami. Eppure spogliata con pena, le mani vuote, forse mi ricorderei di chi, solo, è verità e vita. Forse, potata fino alle radici, quasi morta, un giorno potrei rinascere – un’altra, da prima.
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