Corsi ancora. Chiamai ancora: «Ugo! Ti prego! Ti chiedo perdono!». Dicevo quelle parole con la passione di una giovane innamorata… Niente. Nessuna risposta. Ero sicuro tuttavia che stesse lì vicino, sfuggendomi ogni volta che mi lanciavo verso di lui, nascondendosi dietro un cespuglio ogni volta che mi fermavo per fissarlo con lo sguardo. Mi ero forse sbagliato? A dire il vero, ciò che mi aveva spinto all'inseguimento erano i cinque Zego che avevo visto stesi al suolo con un fiore di cinque dita stampato sulle loro guance pallide. Quei ceffoni magistrali che li avevano abbattuti potevano essere stati amministrati da qualcun altro, non da lui? No, ne avevo ricevuti abbastanza io stesso per esser certo che quello era il suo stile di evangelizzazione…Forse se avessi smesso di inseguirlo sarebbe stato lui a voltarsi verso di me. Forse mi avrebbe spiato attraverso il fogliame e sarebbe venuto a raggiungermi quando di nuovo avessi mostrato di essere in evidente difficoltà. Del resto, ero sfinito. Avevo sete. I piedi mi facevano male. Ancora una volta non avevo brillato in previdenza. Era sempre Ugo che pensava a quello che avremmo mangiato, sapeva tirar fuori un pesce da un fiume o accendere un fuoco strofinando due pezzi di legno con un archetto. Senza il suo aiuto, mi restavano solamente in tutto e per tutto l'abito bianco e i sandali della “civiltà dell'amore” - come dire, lasciato alla mia prudenza non potevo che trovarmi in abito da sposa in mezzo a bestie selvagge. Su un arbusto, sotto grandi foglie a tre lobi, vidi dei bei frutti rossi. Sembravano qualcosa a metà strada tra un fico e una pesca. Promettevano di esplodermi in bocca con il loro succo saporito e la mia lingua pregustava tale delizia, avevo l'acquolina in bocca, ma ero incapace di giudicare se fossero commestibili. Ugo me l'avrebbe potuto dire. Avrebbe potuto… Nel mio spirito, probabilmente stimolato dalla saliva, si fece strada un ultimatum: «Sto per prendere questo frutto, annunciai a voce alta e distinta senza sapere se mi rivolgevo a Ugo o a Dio. Se mi intossico sarà per colpa tua, mi senti? Ma forse tu pensi che merito questa morte stupida, questo riassunto di tutta la storia umana: fulminato al piede dell'albero della conoscenza, senza processo, senza condizionale, senza quell'indulgenza che comunque non mi impedirebbe di ricascarci…». In genere, quando poniamo questo genere di ultimatum, Dio ci sente, il fratello forse ci ascolta, ma è Satana che ci esaudisce. I frutti erano succosi sebbene un po' amari. Ero al quarto quando cominciai sentire i primi effetti dell'avvelenamento. Era come se enormi denti si fossero piantati nel mio ventre e mi masticassero coscienziosamente lo stomaco mentre una mano unghiosa mi stritolava la gola. Prima di perdere conoscenza, il mio ultimo pensiero fu per Ugo: l'avevo detestato per quasi niente, l'avevo avuto anche in orrore quando mi aveva salvato dal morso del serpente, ma in quel momento, mentre stavo per morire forse anche per colpa sua, mi accorsi che non gliene volevo. La sua ora non è ancora giunta. Ce ne dispiace. Lei deve conoscersi un po' meglio. Bisogna rendere un po' più manifesto chi è lei, lasciare in questo mondo un memoriale prima di potere passar dall'altro lato. Sentii una voce, che non era quella di Ugo. Mi accorsi poi che stavo vomitando. La parola “vomitare” è peraltro un po' debole. Sputavo le mie viscere, sputavo le mie ossa, sputavo il mio midollo e probabilmente anche piccoli pezzi della mia anima. Credo di aver riempito due secchi fino all'orlo. Tutta la mia bile venne fuori profumando lo spazio circostante come un incenso di acidità. Infine, al termine di questo rigurgito di me stesso, cessata improvvisamente l'azione della pompa furiosa perché il mio corpo era vuoto e perché ero stato rivoltato come un guanto, caddi all'indietro. Una linea di acido mi fendeva il corpo dal plesso solare fino alle labbra. Ma il suo dolore era come una faglia da dove entrava la luce. Non ero stato così dai tempi stato dalla confessione generale che avevo fatto prima di entrare in convento. Avevo del vomito dovunque, sulla barba, sulle braccia, sul petto, sui capelli, ma mi sentivo puro, mi sentivo lavato. Erano in qualche modo un vomito santi, il vomito del Signore, quello promesso ai tiepidi della chiesa di Laodiceo, nell'Apocalisse.
(36, continua. Traduzione di Ugo Moschella)