Aver potuto distribuire qualche bel ceffone a quei marmocchi maleducati aveva messo Fratel Ugo di buonumore. Non ne dubitava neanche per un attimo: i suoi scapaccioni avevano manifestato pienamente lo spirito del Vangelo e Cristo, nelle stesse circostanze, avrebbe agito allo stesso modo, lasciando forse segni po' più rossi. Erravamo di nuovo in mezzo al nulla e lui camminando fischiettava, agitava il suo rosario riparato come una soubrette avrebbe fatto roteare una lunga collana di perle. L'espressione della sua ingiustificabile gioia raggiunse il parossismo sulle rive di un lago, causandomi brividi di paura. Mentre pescava il nostro pasto si mise a cantare a squarciagola “Fratello Sole Sorella Luna”. Ma non sentiva di essere una nullità completa? Non era umiliato dai nostri fallimenti, le nostre espulsioni successive, la completa inutilità della nostra presenza in questo paese assurdo? Mi lanciò uno sguardo sinceramente stupito: «Ma non eri tu che tenevi tanto a questa missione? Adesso che diventa interessante, vorresti ripartire?» Secondo lui tutto si stava svolgendo in conformità con le migliori profezie: La luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l'hanno accolta. Era quella una fede cieca, l'incoscienza del tonto o l'orgoglio del demonio? Perso nella sua tonaca sporca, col suo grosso labbro sensuale e predicando con meno efficacia di un cataplasma su una gamba di legno, si prendeva per la luce… Sospettavo che questo umore, così opposto al mio, non avesse niente di spirituale. La sua causa è grossolana, mi dicevo, proviene della sua costituzione fisica. Lui, di notte, sfugge sempre al morso delle zanzare, mentre io mi sveglio con la pelle sempre più irritata. Non conosce i miei pruriti. Ma ignora anche il mio unico e torbido piacere: quello di grattarmi fino al sangue. Mentre mangiavamo un pesce insipido e di specie sconosciuta, la lingua di Ugo si sciolse fino a farmi un discorso audace. Ci paragonava ad altri missionari la cui sorte, non più felice della nostra, avrebbe dovuto rassicurarmi. Krick e Bourry, delle Missioni Straniere di Parigi, erano stati assassinati il primo settembre 1854 nell'Assam, senza avere predicato ancora a nessuno e senza potere ottenere il titolo di martiri, perché non erano stati uccisi a causa della loro fede, ma quasi per errore, per derubarli. Il loro ricordo fu cancellato per più di un secolo. Ma ecco che nel 1979, un capo mishmi, lontano discendente di quelli che li uccisero, si converte con novecentoventiquattro membri della sua tribù: «Quelli che piantano, commentò Ugo, non sono quelli che raccolgono». Noi stavamo dunque piantando. Rievocò poi due altri missionari che, al contrario, erano riusciti subito a convertire un villaggio amerindio. Il problema è che, oltre a Cristo, avevano trasmesso loro anche il vaiolo. Tutti gli abitanti del villaggio morirono in alcuni mesi, certo con tutti i sacramenti. I due buoni preti li seppellirono tutti quanti, erigendo una grande e bella croce prima di partire: «Forse, non restando troppo tempo in ciascuna tribù metagone, concluse fratel Ugo, seminiamo giusto ciò che occorre della Buona Parola, e risparmiamo loro i nostri cattivi germi…». Non l'avevo mai visto così loquace. Si mise a parlarmi della sua infanzia e della sua vocazione. Il nostro soggiorno presso i Pedag gli aveva certamente provocato tali reminiscenze. Un'infanzia per nulla disgraziata, insisté. Nessun trauma. Nessuna nevrosi conseguente. Avrebbe esasperato la società internazionale di psicanalisi. Era il maggiore di cinque figli. Lo avevano chiamato Ugo (Ugo Maria, per essere esatti) a causa dei Miserabili: i suoi genitori ne avevano letto solamente la copertina. Suo padre qualche volta l'aveva picchiato, ma Ugo gliene era riconoscente. Mi citò anche la lettera agli ebrei per giustificarlo: Se siete senza correzione , mentre tutti ne hanno avuto la loro parte, siete bastardi, non figli! Quando ritornava da scuola, e tutti i fine-settimana bisognava «cata sö i pomm de tera», «cata zo i pomm», «Muncc i besti», insomma mandare avanti la fattoria. Non si lamentava di questo sfruttamento. Gli aveva «forgiato il carattere». Sua madre era una donna molto devota ma con una certa inclinazione all'alcol, «come santa Monica», precisò subito. Svuotava i suoi tre bicchieri di calvados tutte le sere. Poi si metteva a straparlare come un'ubriaca, ma sempre davanti a un'immagine di santa Teresa di Lisieux, come se la carmelitana fosse all'altra estremità del tavolo e avesse bevuto altrettanto: «Tu mi capisci, tu, diceva la madre, anche tu, hai avuto tanta sete». Aveva l'abitudine di minacciare Ugo con un attizzatoio, gli aveva anche procurato una profonda bruciatura che si vedeva ancora sulla sua scapola sinistra. Me la mostrò con le lacrime agli occhi : «Quando ho il morale a zero, passo le dita sulla cicatrice, mi ricordo di mamma, e questo mi riempie di amore…». Beninteso, era lui a doversi occupare dei suoi fratelli e sorelle più piccoli. La madre impiegava molto tempo la mattina a smaltire la sbornia. Fu del resto una mattina, mentre la guardava russare a bocca aperta, che sentì la chiamata. Nella puzza del calvà, Gesù gli aveva comandato di seguirlo. Ciò che mi aveva colpito di più, in quello che mi aveva raccontato, è che non aveva dubitato mai. Io, personalmente, ero un convertito, avevo attraversato mille domande e il fatto di essere cristiano era una domanda ancora più radicale, una continua oscillazione tra le inquietudini dell'aurora e l'abbandono nella notte. Niente di tutto ciò per Ugo. Cristo era per lui un'evidenza tale che ci si poteva chiedere se avesse la fede. Non si trattava per lui di dedicarsi all'invisibile, ma di poggiare sul solido, più solido della stessa terra. Si era fatto ritrovamentista perché suo zio lo era stato prima di lui. Avrebbe tuttavia preferito essere curato di campagna. Aveva una passione per le vecchie. E se avevano una protesi all'anca, cantavano stonato e sparlavano delle loro vicine, era ancora più bello: era la prova della tenerezza di Dio che era sceso fino a questi cocci rotti. Quando si pensa che l'essenziale, per me, era di organizzare le «messe dei giovani» e di “toccare” gli artisti e gli intellettuali, bisogna ammettere che non soltanto nella casa del Padre ci sono molte dimore ma constatare anche che queste dimore sono separate da muri perfettamente stagni.
(18, continua. Traduzione di Ugo Moschella)