Milano, febbraio - L'anarchia dei sogni mi lascia sempre meravigliata. Stamattina mi sono svegliata con negli occhi l'immagine precisa di una remota gita in montagna, quando ero ragazza. L'immagine era quella di una radura in un bosco, nelle Dolomiti, e nel sogno si presentava da sola, come in un flash, nettissima.Appena ho aperto gli occhi, trasognata, ho inseguito il ricordo di quel giorno. Avrò avuto quindici anni, e, circostanza rara, ero in vacanza con mio padre, a Cortina. Era estate, uno splendido pomeriggio di luglio. Mio padre consultò la mappa dei sentieri e non mi disse dove voleva andare, con fare misterioso. Lo seguii perplessa. Conoscevo la zona sotto al Monte Faloria. Mi pareva strano che potesse mostrami qualcosa di nuovo.Partimmo da Fraina e ci inoltrammo nel bosco di larici e abeti, fitto e ombroso, traversato dai raggi del sole come lame. L'aroma della resina, denso, e sul sentiero coperto di aghi i nostri passi ovattati. Non camminammo a lungo. Forse, mi pare, a un certo punto abbandonammo il sentiero. Io pensai che ci saremmo persi.D'improvviso, dalla penombra ci trovammo nel sole pieno di una radura semicircolare. L'erba rigogliosa era costellata di fiori, e anche di gigli selvatici,bellissimi con la loro sagoma elegante che svettava tra le margherite. Il trionfo dell'estate, pensai, incantata, quasi smettendo di respirare.Attorno a noi, nessuno: solo il vento tra gli alberi, come il fiato del bosco. Sopra, il blu zaffiro del cielo di luglio. Restai immobile, sulla soglia della radura, per la troppa bellezza. «Hai visto?», chiese soltanto mio padre. Sì, vedevo: nella radura nascosta, un'armonia perfetta. Ma non solo. Sembrava, quell'angolo di bosco, un luogo sacro, quasi una corte dove uomini primitivi si trovavano, in tempi immemorabili, a adorare déi silvani. Mi stupì, che mio padre conoscesse quel posto. Chissà quando ci era stato, mi chiesi - ma fra noi non parlavamo molto.Proseguimmo, non so più per quanto, su un sentiero poco battuto. Ricordo che su una parete della montagna vidi come una porta quadrata, disegnata nella roccia. La chiamano «la Porta del dio Silvano», mi disse mio padre, ma non sapeva altro. Allora era vero, mi dissi, che in quel bosco un tempo si venerava un dio pagano.Mi restò, di quel giorno di luglio, la certezza che mio padre mi avesse voluto fare un dono, portandomi nel recesso più segreto di bosco. Come se avesse voluto regalarmi una gemma. Ma come mai ho sognato stanotte, tanti e tanti anni dopo, quella radura? «Ti mostrerò ciò che di più bello ho mai visto», sembrava dirmi lui con i suoi occhi grigioverdi, quel giorno. Sono venticinque anni che è morto, eppure quel pomeriggio nel bosco è tornato, intatto, nei miei sogni. E mi commuove pensare che sia un silenzioso messaggio - o forse, addirittura, una promessa.