Come se non fosse Natale. La piazzetta del Sepolcro vuota, Betlemme deserta. Come se non fosse nato nessuno. Guardo le immagini che si alternano alle macerie e agli incendi a Gaza sotto le bombe, in quella medesima notte. I sopravvissuti che con le torce, nella polvere, cercano qualcuno. Dicembre 2023, che annichilito Natale in Terra Santa.
Quell’anno, invece, era la fine di gennaio. 1991. Da pochi giorni l’Iraq colpiva Israele con i suoi Scud. Gli Usa avevano schierato il sistema antimissile Patriot. Negli hotel di Tel Aviv gli ospiti alla sirena lasciavano l’aperitivo e si accalcavano negli ascensori, verso il rifugio. Gli Scud facevano danni e feriti, ma il vero timore era il gas. Che Saddam usasse il gas. Di modo che giravamo tutti con una pesante borsa, dentro una maschera antigas di gomma nera. Me la provai allo specchio in hotel, me la tolsi con sgomento. Suonavano le sirene e sentivi un’esplosione, scoppiavano lontani degli incendi. Ma il retropensiero era il gas. Non è possibile, non possono, mi dicevo. (Ci furono però anziani ebrei che morirono d’infarto, durante gli attacchi, al solo pensiero di quella parola, “gas”, ascoltata da bambini). Ero una giornalista e volevo capire come ci si sente, dentro una guerra. Non avevo in realtà paura, ero giovane e mi credevo invulnerabile - non poteva accadere a me. Ciò che mi rimase nella memoria fu la mia faccia con la maschera antigas nello specchio, e gli ospiti dell’hotel che abbandonavano di colpo Campari e galanterie e a spintoni si mettevano al sicuro. Ci guardavamo, nel locale affollato, con quei mostruosi nasi neri addosso. Sembravamo mosche, una folla di mosche al microscopio.
Un pomeriggio andai a Gerusalemme. Vuoti i vicoli, buio lo straordinario mercato intriso di aromi orientali che anni prima mi aveva incantato. Un vecchio monaco ortodosso sull’ingresso si apprestava a chiudere il portone. C’ero solo io. «Sta fuori o entra?», mi chiese.
Meravigliata, appresi che si poteva restare di notte nella Basilica. «Entro», dissi senza esitazione, e il portone mi venne chiuso alle spalle. La Basilica giaceva in una penombra densa. Gli incensi fermi nell’aria, le fiamme delle candele appena oscillanti. Al Sepolcro avevo anni prima visto la folla. Quella notte, nessuno. Non saprei dire quanto ci rimasi, incredula, accarezzando la pietra liscia con la mano. Solo quando ne uscii mi accorsi di quanto freddo faceva laggiù, nel fondo di una notte di gennaio. Un gelo umido che entrava nelle ossa, un freddo come per sempre.
Era ancora buio quando il portone fu riaperto. Cercai di orientarmi nel dedalo di vicoli, solo il rumore dei miei passi e sulle spalle, oscillante, la zavorra, la orribile maschera. Che fu inutile. La guerra degli Scud non fu nulla di paragonabile alle atrocità nei kibbutz del 7 ottobre 2022, a Gaza incenerita e macellata, oggi. In realtà, non avevo visto, della guerra, niente - se non un’indicibile antica paura, negli occhi di chi mi stava accanto.
Paura ne ebbi l’ultimo giorno all’aeroporto, al decollo, sentendo la sirena e pensando all’aereo fermo in pista, col serbatoio pieno. Capii che volevo tornare a casa, e avere dei bambini. Lo dissi fra me - o forse era una preghiera. A Roma, a fine di gennaio, sembrava già primavera. Come risvegliarsi da un brutto sogno. Per questo l’incubo tornato, e mille volte più feroce, mi ammutolisce. I figli sono grandi, ho dei nipoti. Ma è disperante il male in Terra Santa, antico, moltiplicato, ebbro di vendetta. Cerco di non scordarmi la mia incredula solitaria notte al Sepolcro. Come un dono da ricordare, da vecchia: l’unica pace, l’unica vita che non mi potrà togliere nessuno.
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