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Quella memoria che accende ogni vera storia di sport

Mauro Berruto mercoledì 15 agosto 2018
«A noi piace la fatica. Non ci preoccupiamo e non ci lamentiamo. Nuotiamo». Queste parole sono della neo-campionessa europea Arianna Bridi, una ragazza trentina di ventitré anni che ha scelto di faticare, non lamentarsi e nuotare gareggiando in una delle discipline più massacranti che esistano: la Gran Fondo, una gara che ai Campionati Europei di Glasgow si è svolta nelle acque libere (e freddissime) del lago di Loch Lomond. La distanza da percorrere prima di arrivare al traguardo di una Gran Fondo è quella più lunga di tutte le specialità del nuoto: 25 km. Per i nuotatori da fitness club che sguazzano in vasche da 25 metri il calcolo è presto fatto: sono mille vasche. Sì, mille, ma in acque libere.
A Glasgow qualche ulteriore dettaglio faceva la differenza: la temperatura dell'acqua intorno ai 16 gradi imponeva di indossare una muta pesante e una pioggia gelida infastidiva i nuotatori per tutta la durata della gara. Freddo e fatica per 5 ore, 19 minuti, 34 secondi e 6 decimi. Arianna ha battuto una fuoriclasse, l'olandese Sharon van Rouwendaal, che pur essendo protagonista di una fuga solitaria, ha clamorosamente sbagliato rotta all'altezza della boa di virata. Arianna ha approfittato dell'errore dell'avversaria ed è andata via di prepotenza, ma l'olandese, campionessa olimpica a Rio, non si è affatto arresa. Ha rimontato, affiancato l'italiana e nuotato gli ultimi metri appaiata a lei. L'azzurra ha toccato per prima, vincendo per un decimo secondo. Dopo 5 ore 19 minuti 34 secondi e 6 decimi, ovvero 191.746 decimi di secondo, uno di questi ha fatto la differenza.
La forza dello sport come metafora sta proprio nel fatto che, pur narrando storie che sembrerebbero romanzi di esperti scrittori, in realtà si nutre, senza fine, di storie vere. Chi, da spettatore, osserva quello sprint finale non può evitare di chiedersi: dove e quando lo avrà allenato, Arianna, quel decimo di secondo che le è servito per vincere? Quanti chilometri d'acqua avrà messo alle sue spalle per arrivare lì, spalla a spalla con la sua avversaria? Quale sarà stato l'esercizio decisivo? Sul superamento di quale dolore o di quale infortunio Arianna avrà potuto costruire quell'attimo? Sembrerebbero temi di letteratura, di epica o, al limite, roba da supereroi della Marvel. Invece Arianna è una ragazza come le altre che, a differenza di tante altre, ha lavorato da anni e in ogni singola seduta di allenamento per quel decimo di secondo. In tutti gli sport, la differenza tra i campioni e gli atleti normali sta nella capacità di sostenere il confronto con un livello di dettagli che sfiora l'ossessione, per guadagnare un millimetro, un punto, un decimo di secondo.
Poche ore dopo la vittoria di Arianna, sulla pista di atletica dello Stadio Olimpico di Berlino andava in scena la finale europea dei 5.000 metri, altra sofferenza e fatica messa su una pista in tartan invece che nell'acqua. L'israeliana Chemtai Lonah Salpeter (che in precedenza aveva vinto la medaglia d'oro nei 10.000) sprinta negli ultimi metri e pensa di tagliare il traguardo seconda. Un oro e un argento sono un risultato enorme per lei. È felice, festeggia. Dopo pochissimi secondi, tuttavia, si accorge che le altre non si sono fermate: ha fatto male i calcoli, manca un giro alla fine. La Salpeter riparte, tenta disperatamente di recuperare, ma viene impietosamente superata, arrivando quarta. Mentre le altre festeggiano lei sta nel prato, buttata a faccia in giù, a piangere. Piangono per vittorie o per sconfitte, nuotano e corrono per loro, questi atleti, certamente. Ma è evidente che nuotino e corrano anche per noi, che guardiamo lo spettacolo e ascoltiamo la loro storia rapiti da una trama che non è solo esperienza estetica. È qualcosa di più grande che ci parla da tanto, tantissimo tempo. Per un atleta esprimere un livello di perfezione fisica e vincere una competizione nei Giochi dell'Antica Olimpia significava assurgere allo status di semidio. Per gli spettatori, trovarsi nello stesso luogo in cui si manifestava tale perfezione e presenza divina costituiva l'esperienza estetica e trascendentale più straordinaria della propria vita.
È in questa sorta di memoria genetica che risiede la nostra inesauribile emozione nell'assistere agli spettacoli sportivi e che ci permette di appassionarci alle storie di atleti, trepidando per quel decimo di secondo o per quegli ultimi metri che li vedono protagonisti, vittoriosi o sconfitti, come se avessero direttamente a che fare con noi e con le nostre vite.