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Quella foto capace di ispirare il racconto di una storia intima

Lisa Ginzburg venerdì 10 maggio 2024
Quando le parole nel loro comporsi riescono a restituire un’immagine, sia essa una fotografia, un quadro, una qualche altra prospettiva visibile, allora, nel leggere quelle parole, si prova un senso di compiutezza, come addivenissimo alla pienezza di un significato delle stesse immagini altrimenti incoglibile. Ovvero, quando un testo scritto riesce nella sfida di “far vedere”, utilizzando lo strumento di cui dispone – il linguaggio – in modo tale da orientarlo e declinarlo sull’atto del guardare, noi sperimentiamo una sorta di cortocircuito sinestetico, perché leggere e immaginare visivamente avvengono in quel momento simultaneamente, e coincidono. La scrittrice Katja Petrowskaja, tedesca di origine ucraina, ha scritto una serie di testi brevi (all’origine, articoli di giornale) che realizzano simile miracolo. Con il suo talento nel comporre affreschi di parole, Petrowskaja ci aiuta a “leggere” fotografie, a scoprire in esse dettagli che ci sarebbero sfuggiti, a rinvenire, tra i chiaroscuri di ogni singolo scatto, sentimenti e attitudini dei soggetti che a occhio nudo non per forza noi avremmo còlto. Il libro, traduzione di Ada Vigliani, La foto mi guardava (Adelphi, pagine 259, euro 24,00) è silloge esemplare e intensa di questo tipo di esercizio di sguardo. Una fotografia su tutte può restituire il sapore di questo libro tanto prezioso. Vi si vede, su un lembo di spiaggia affacciato sul Mar Caspio, un uomo di spalle nell’atto di scrutare l’orizzonte. La sua figura nell’immagine si staglia immobile e triste, incorniciata dalla griglia tubolare di un gazebo dismesso. Tutto è geometrico, le linee - per caso - eppure sono perfettamente corrispondenti nelle loro traiettorie; e tutto della foto emana, questo la scrittrice ci aiuta a vedere, un senso di angustia e di solitudine, condizioni che sono punto d’avvio per una riflessione su confini, libertà, possibilità di spaziare o circoscrivere vedute, panorami, ma anche stati dello spirito. Katja Petrowskaja è straordinaria quanto a ricchezza e precisione del lessico, al pari che per intensità di sguardo. Quello che sa posare su ogni singola foto aiuta anche noi a guardare con estrema profondità, più di quanto sapremmo da soli. Ha scritto questi articoli per la “Frankfurter Allgemeine Sonntagszeitung” nell’arco di sei anni, tra il 2015 e il 2021. Selezionare fotografie, studiarle nel dettaglio per poi restituirle con i suoi acume e generosità d’animo di scrittrice ha significato una forma di consolazione. Lo racconta lei stessa nell’epilogo, riflettendo su come il libro, mai parlando guerra, invece sia «stretto nella morsa della guerra». Dopo che la Russia di Putin nel 2014 ha invaso la Crimea (per Petrowskaja «luogo perduto dell’infanzia») la reazione è stata cercare una nuova andatura, anche nel lavoro: un nuovo stile. Ecco allora le fotografie: loro «a sostituire l’inespresso, a offrire il frammentario, a creare possibilità di silenzio e bellezza». Dare voce alle immagini come forma di resilienza. Nell’angoscia e nella paura che ci accompagnano in questi tempi di continuo spazzati da venti di guerra, saper guardare e aiutare a guardare è una forma di lucidità e di umanità che aiuta. Un esercizio che va ben oltre i confini della letteratura, per diventare pratica morale, postura verso l’esistenza. © riproduzione riservata