«Com'era bella, un tempo, quella cosa. Nun me ricordo che, però era bella. Me sforzo, ma rimane misteriosa, pure si penso solamente a quella. E la domanda è sempre più angosciosa: che d'era? La famiglia? Mi sorella? Un poveraccio? Un abito da sposa? La gente? Un fiore? Che ne so, una stella? La guera no davero, una canzone, o forse una poesia, la primavera, quando c'erano ancora le stagione… ma non si tratterà di un'illusione? Me venne da pensà proprio iersera. Era bella, me sa, perché non c'era». Incanto e ironia fanno poesia nell'arte popolare di Gigi Proietti, amato dai romani, ma non solo. Questa memoria di una cosa bella è, a un tempo, un sentire e una chimera, la smania di un oggetto inafferrabile, inchiodato nell'anima, però, come un'ossessione irrinunciabile. La bellezza, in realtà, è come una rima, un riflesso che esce dagli scorci della vita ordinaria, e che illumina d'oro le cose più semplici. Tutte tranne la guera che, invece, è opacità assoluta. Ma la gente, un poveraccio, un fiore, una poesia son tutte cose che, anche se passano al punto da sembrare, addirittura, come se non ci fossero mai state, sono, però, le uniche che restano, uno spiraglio sull'eternità.