Un plauso doveroso va al Salone del Gusto di Torino che taglia il traguardo dei 20 anni scendendo in piazza, nelle strade, sotto i portici di Torino e nel grande parco del Valentino. Questa edizione ha molti significati: il più evidente è quello di valorizzare il genius loci di una città decisamente bella, per scoprire il villaggio del gusto, fatto di tanti piccoli artigiani che hanno creduto in quella che vent'anni fa sembrava un'utopia: la fine della nicchia. «La nicchia – ha detto spesso Petrini – è qualcosa di museale, ricorda i cimiteri più che la vita». Uscire dalla nicchia ha invece voluto dimostrare come un Paese come l'Italia possa essere campione di una qualità diffusa che trae origine nella sua biodiversità. Dietro agli stand di tanti produttori ci sono dunque sogni che si sono realizzati, giovani che hanno trovato un'occupazione e che si son sentiti protagonisti di un cambiamento, proprio quando tutto sembrava destinato all'industrializzazione. E invece ha prevalso il territorio, il legame con un certo passato che è tutt'altro che qualcosa di nostalgico. L'empirismo è ancora la strada maestra di una generazione che ha sposato la sostenibilità ambientale, la pulizia, e quindi anche il gusto. Da qui un messaggio internazionale che gli amici di Slow Food hanno coniato in Terra Madre, per dire che non solo in Italia bisogna credere in ciò che ci è stato dato dai padri, ma in tutto il mondo, laddove la povertà rischia di spazzare via saperi antichi, ma anche pratiche alimentari che si sono radicate nel processo di crescita dei popoli. Ma non è la povertà che spazza via tutto questo, piuttosto la presunzione di rispondere alla povertà con una ricetta assistenziale, mentre è nel coinvolgimento agronomico che si può trovare una strada. E qui i grandi poteri talvolta reagiscono, pensando alla povertà come a una nuova occasione di potere e di dipendenza. Carlin, così lo chiamiamo da sempre, ha girato il mondo in questi anni e, coi suoi occhi, ha spesso visto i germi di un progresso lento (slow) ma sostanziale, anziché un'involuzione. Lo ha visto nelle comunità del cibo dell'America Latina, ma anche in India e in Africa. Due anni fa ci confrontammo proprio nella redazione di questo giornale, alla vigilia di Expo e ci fu dialettica fra noi sul ruolo dell'Italia. Io sostenevo che il nostro Paese era un modello che poteva aiutare il mondo coi tanti esempi di "principio di restituzione", che poi abbiamo raccontato ad Expo in un seminario sulle 4 potenze dell'enogastronomia. Lui vedeva in questo un atteggiamento presuntuoso dell'Italia. Ma dicevamo poi la stessa cosa, ammirati da quella che poteva essere una positiva contaminazione. Un evento come Terra Madre, del resto, si tiene in Italia, in una città del Nord. E non credo proprio che sia un caso. È l'incipit di una missione.