Quell’urlo di Desalu che risuona ancora
accadere con Mateo Retegui, che un calciatore possa vestire la maglia azzurra, non avendo mai messo piede in Italia e con la necessità di un traduttore per le interviste, in virtù dello ius sanguinis, ovvero disporre di un avo italiano nel proprio albero genealogico, ragazze e ragazzi nati in Italia che conoscono perfettamente la nostra lingua, le nostre tradizioni, la nostra cultura, devono aspettare fino ai diciotto anni quando inizia l’iter (nel caso di Desalu servirono pochi giorni dopo il compleanno, ma di solito è molto lungo) per potersi vedere assegnato il nostro passaporto. Un’ingiustizia, nulla di più, nulla di meno. Sia chiaro: nulla contro Mateo Retegui, né contro la scelta di Roberto Mancini. Entrambi esercitano un legittimo diritto e fanno benissimo, ci mancherebbe. Tuttavia, proprio perché parliamo di diritto, non si può non far notare l’incongruenza con la realtà. Così come è chiaro che non può essere il talento l’acceleratore dell’ottenimento di un diritto. Fra i tanti italiani di seconda generazione ci sono talenti sportivi (e, chissà, nella matematica, nelle scienze, nella musica, nell’arte) così come ragazzi che il proprio talento non l’hanno ancora trovato. Non può e non deve esserci alcuna differenza. Ecco perché l’urlo di Desalu ci aiuta a ricordare come il nostro Paese debba ancora fare ancora un passo in avanti in termini di giustizia sociale, per mettere tutti i nostri cittadini e cittadine, in modo universale, di fronte alla possibilità di accedere, indipendentemente dal fatto di poterselo permettere o del talento che è stato loro donato, di accedere al diritto di cittadinanza e a tutti gli altri loro diritti, compreso quello allo sport. © riproduzione riservata