Quell'Italia che (in silenzio) vince nel mondo
È un risultato che dovrebbe portare aria nuova nelle chiuse stanze del nostro dibattito politico. Imponendo subito una raffica di riflessioni controcorrente. La prima è l'insensatezza di una rappresentazione dell'Italia – sempre più diffusa ahinoi – come "Disneyland della storia" destinata a vivere solo di turismo, cultura e narrazione. Nonostante la perdita di numerose grandi imprese negli ultimi 20 anni, il Pil e l'occupazione del nostro Paese sono ancor oggi (in gran parte) figli della grande capacità manifatturiera degli italiani e di una innovazione di prodotto che probabilmente non ha eguali al mondo. La seconda riflessione riguarda la "flessibilità" del modello d'impresa ideale nei diversi settori: le grandi economie di scala non sono l'unica strada possibile per la competitività, o almeno non in tutti i settori. In ambiti come, tra gli altri, l'abbigliamento, il tessile, la meccanica, l'alimentare si può "vincere" nel mondo anche con dimensioni medie, puntando sulla qualità della produzione e su una presenza produttiva e distributiva chirurgicamente posizionata nei mercati a più alto tasso di crescita. Un'altra riflessione riguarda la percezione dell'italianità nel mondo, che viene ancora associata al "ben fatto", al gusto, alla cura artigianale del prodotto. È come se l'antico spirito delle botteghe rinascimentali fosse ancora, in qualche modo, percepito e riconosciuto.
Per evitare inutili trionfalismi, è giusto rilevare anche il rovescio della medaglia: se tutto ciò non si traduce in una crescita del Pil in linea con Germania e Francia, vuol dire che le imprese vincenti rappresentano "isole" in un mare (che rimane) in tempesta. Costruire ponti tra le isole e scialuppe per chi cerca di raggiungerle, non può essere certo compito di chi intraprende...
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