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Quell'impegno «enorme», e non scontato, di pace

Salvatore Mazza sabato 5 marzo 2022
Per molti, non cattolici e anche cattolici, senza distinzione, è un fatto scontato che davanti a una guerra il Papa invochi la pace. Quasi fosse un dovere di ufficio, una semplice attività di routine. Quasi una non-notizia, una banalità. È un po' come quando, a Messa, il sacerdote invita a scambiarsi un segno di pace: dare la mano al nostro vicino è un gesto automatico, meccanico, e magari, riuscendoci, anche accompagnato da un sorrisetto stirato. Non ci sfiora neanche per un momento l'idea che quel semplice gesto sia un impegno, un preciso impegno che prendiamo di fronte al Signore in cui diciamo di credere e che ha detto «beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio». Operatori che poi siamo, o dovremmo essere, noi. E noi, invece, dopo un minuto siamo di nuovo lì fuori a pensare alle liti condominiali, al collega incompetente che ci ha soffiato il posto, a tutte le nostre piccole cose in sospeso che «gliela farò vedere io».
E i gesti, invece, sono importanti. Importantissimi. E importantissimo è stato quello compiuto da Papa Francesco lo scorso 25 febbraio, quando è andato a bussare alla porta dell'Ambasciata russa presso la Santa Sede. Un Papa che facesse una cosa del genere non s'era mai visto. Neppure s'è mai visto farlo un Capo di Stato. Secondo la consuetudine diplomatica, è l'ambasciatore ad essere convocato. Francesco non l'ha fatto, lui si è mosso ed è andato di persona. E l'"enormità" di un gesto come questo, mai visto prima, senza nessun precedente, dice tutta l'urgenza, tutta la preoccupazione di un Pastore angosciato per un conflitto, quello scatenato dalla Russia contro l'Ucraina, che lascerà comunque conseguenze incalcolabili, sempre ammesso che non si trasformi in qualcosa di ancora peggiore.
È andato e si è fermato per mezz'ora. Non si sa di preciso che cosa si siano detti il Papa e l'ambasciatore Alexander Avdeev in quei trenta minuti. Anche se, conoscendo un po' Bergoglio, è possibile che Francesco abbia usato grande franchezza «nel rinnovare l'invito a fermare i combattimenti e a tornare al negoziato», e nel tornare a ribadire che «occorre innanzitutto interrompere subito l'attacco militare, delle cui tragiche conseguenze siamo già tutti testimoni», come ha detto il giorno successivo il cardinale Segretario di Stato Pietro Parolin nel commentare la visita del Papa.
Questo gesto immenso, insieme agli altri – la telefonata fatta dal Papa al leader ucraino Volodymyr Zelensky per esprimergli, secondo quanto fatto sapere dall'ambasciata ucraina presso la Santa Sede, «il suo più profondo dolore per i tragici eventi che stanno avvenendo nel Paese», e ancora l'invito a digiunare il 2 marzo, Mercoledì delle Ceneri, rivolto esplicitamente a credenti e non credenti, fino alla decisione di inviare a Kiev aiuti sanitari – dicono già da soli tutto quello che c'era da dire. A rendere in tre dimensioni le parole che ci sono state. Parole anch'esse importanti, "di peso", a spiegare le ragioni di quei gesti. Con gli appelli ripetuti, insistiti, i tanti tweet quotidiani, anche in russo e in ucraino. Per dire «a quanti hanno responsabilità politiche», tutti indistintamente, di fare «un serio esame di coscienza davanti a Dio, che è Dio della pace e non della guerra», come ha detto nella udienza del 23 febbraio, Dio che «è Padre di tutti, non solo di qualcuno». Teniamolo in mente, domani, quando il celebrante dirà di scambiare uno sguardo o un gesto di pace.