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Quel vezzo che limita i nostri accademici

Alfonso Berardinelli venerdì 15 marzo 2019
Una delle cose che colpiscono di più nella produzione delle nuove generazioni di studiosi di letteratura è la bibliografia critica di cui si servono nel loro lavoro e che esibiscono in pagine e pagine diligentemente, a volte inutilmente fitte di nomi.
Questa enfasi enumerativa ha un punto debole, perché più le bibliografie sono affollate e sterminate più si notano le lacune. Sempre più spesso sembra che i nuovi accademici ignorino la storia della critica che è stata scritta prima degli ultimi vent'anni. Credono che nell'intelligenza interpretativa ci sia progresso come nella chimica o nella fisica e non si rendono conto che su molti classici il meglio è stato detto già a pochi anni o decenni di distanza dalla pubblicazione delle loro opere. Si possono certo adottare nuovi punti di vista, scoprire aspetti in precedenza trascurati e attribuire ad alcuni autori un'importanza che per ragioni storiche o biografiche i loro contemporanei non seppero o non vollero riconoscere. Ma questa non è una regola assoluta.
Da mezzo secolo l'università occupa quasi interamente il campo culturale e questo ha portato a un incremento di "produzione scientifica", magari correttamente eseguita, ma dalla cui lettura si ricava ben poco. Si scrive per essere ammessi alla docenza universitaria e questo movente non è dei migliori. Chi scrive per essere accettato dai guardiani di un'istituzione, è raro che voglia correre rischi. Così i giovani studiosi studiano gli autori che vanno di moda applicando metodi, concetti e formule che segnalino la propria virtuosa appartenenza al branco, alla casta degli specialisti in quel momento in attività e in cattedra.
Per queste stesse ragioni nelle bibliografie non si prende in considerazione la critica letteraria scritta da narratori e poeti: spesso più acuta, percettiva e motivata, ma che agli accademici sembra troppo soggettiva e non abbastanza scientifica solo perché sprovvista di note, bibliografie e altri apparati. Tutto questo crea strane lacune nelle bibliografie degli studiosi. Quale anglista e americanista di oggi si serve, quando studia, di quanto hanno scritto David H. Lawrence, Frank R. Leavis, Edmund Wilson, Auden o Lionel Trilling? Così agli italianisti sembra vietato assumere come tuttora valido un giudizio di De Sanctis, Croce o Sergio Solmi.
Mi è capitato recentemente fra le mani un volume di varie centinaia di pagine, contenente testi di una trentina di studiosi, dedicati al romanzo moderno. Ebbene, dall'indice dei nomi risulta che nessuno di questi studiosi ha sentito il bisogno di dare un'occhiata agli scritti di Ernst R. Curtius o Cesare Cases, Mario Praz o Pietro Citati, Emilio Cecchi o Giuliano Baioni, Tomasi di Lampedusa o Vargas Llosa, Ortega o Geno Pampaloni, Sartre, Steiner... A proposito di etica borghese abbondano i riferimenti a Leopardi e Baudelaire, ma sembra che nessuno abbia letto autori difficilmente trascurabili su questo tema come Kierkegaard e Aleksandr Herzen o Thorstein Veblen. Aggiungerei, un po' maliziosamente, che della borghesia o ceto medio attuale e del suo rapporto con la cultura questi studiosi non parlano. È la classe sociale a cui appartengono.