Quel Natale era freddo e c'era nevischio, molto dell'uno e poco dell'altro. Sui vetri delle finestre esposti verso nord, si erano formati degli arabeschi di ghiaccio, intricati e bellissimi. Era una di quelle giornate che si leggono, con devozione, negli inverni russi di ogni tempo. Dalla mia stanzetta, le sere precedenti, vedevo un lumicino in lontananza che, nella mia fantasia infantile, si ingrandiva man mano che si avvicinava. Era il carrettino di Gesù Bambino, carico di doni ed una cosina c'era sempre anche per me. Il presepe in casa brillava dei suoi lumini accesi e, guardando fuori verso i campi, vedemmo che presso di noi si era accampato un gregge di pecore con due pastori, avvolti nei loro tabarri e con cappellacci da farli sembrare una coppia di passator cortesi. Le pecore erano alcune decine. Dei due muli, uno portava gli agnellini appena nati, l'altro i bagagli essenziali. Il cane teneva unito il gregge. I pastori dormono sulla nuda terra, avvolti nel loro mantello. Mio padre decise di invitarli a trascorrere il Natale con noi. Venivano a piedi dalle valli bergamasche. Personaggi come quegli alpini di cui si narra nel romanzo «Centomila gavette di ghiaccio» di Giulio Bedeschi. Mangiarono quasi senza parlare, né sorridere. Si asciugarono alle nostre due stufe a legna, ci dicemmo buon Natale. Verso sera tornarono al loro presepe naturale. Il cane aveva provveduto a tutto da solo. Il nostro presepe continuava, al gelo, in loro. Sentivo belare; forse era il buon Natale per noi.