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Quel legame indissolubile fra sport e geopolitica

Mauro Berruto mercoledì 13 novembre 2024
Un atleta rappresenta se stesso o il Paese che gli ha rilasciato il passaporto? È un ambasciatore della propria Nazione? Ne rappresenta il Governo, vizi e virtù comprese? E i club sportivi, invece? E le squadre nazionali? Domande di grande attualità, ma a cui la storia ha già più volte risposto, raccontandoci di conflitti iniziati, sospesi o terminati grazie allo sport. La notte di Natale del 1914 militari tedeschi e inglesi lasciarono le rispettive trincee, a Ypres, nelle Fiandre, per giocare una partita di calcio nella “terra di nessuno”, decidendo d’impulso una tregua contro la volontà dei loro comandanti. Ryszard Kapuœciñski ci raccontò “la prima guerra del football”, il conflitto combattuto nel 1969 fra Honduras ed El Salvador e che prese le mosse dagli incontri per la qualificazione ai Mondiali del 1970, la “diplomazia del ping-pong” riconciliò Cina e Stati Uniti negli anni ’70 e il Mondiale di rugby in Sudafrica del 1995 diventò per Nelson Mandela uno strumento per ricostruire un Paese lacerato dalle divisioni dell’apartheid. Se torniamo indietro di duemilacinquecento anni, nessun dubbio: nel mondo dell’Antica Grecia c’era un legame indissolubile fra competizione sportiva e geopolitica. Gli atleti gareggiavano ad Olimpia rappresentando la propria pòlis che partecipava, a pieno titolo, della gloria del successo o della delusione della sconfitta. Non c’è dubbio, insomma, che lo sport abbia contribuito a creare identità e, a volte, un’ossessione identitaria di cui il mondo ha pagato tragiche conseguenze. E oggi? Il dibattito si era aperto nell’aprile 2022, dopo la decisione del comitato organizzatore di Wimbledon di escludere i tennisti russi e bielorussi dal torneo. La Russia era già stata inibita a organizzare tornei sportivi (la finale di Champions League a San Pietroburgo e il Mondiale di pallavolo, formidabili volani economici, grazie a Gazprom), ma il seguito della storia è noto: la guerra in Ucraina non solo non è terminata, ma – peggio – se n’è aggiunta un’altra, drammatica e anch’essa ai confini dell’Europa. I Giochi Olimpici di Parigi non sono riusciti in nessuna offensiva diplomatica, anzi, il conflitto fra Israele e Palestina, come se non fosse sufficiente l’immane tragedia di Gaza, sta detonando, a distanza di tre mesi dai Giochi, anche nelle “piazze sportive” europee: la partita di calcio Italia-Israele in Ungheria, dove frange di tifoserie di ultra-destra hanno voltato le spalle nel momento dell’esecuzione dell’inno israeliano, gli scontri di Amsterdam, le tifoserie in molti stadi in Germania, Francia, Irlanda che si sono schierate apertamente e, ora, la notizia che in occasione di Francia-Israele, domani, allo Stade de France non sarà possibile esporre la bandiera palestinese, fatto che sarebbe ritenuto “gesto politico” nonostante, proprio nello Stade de France, lo scorso 11 agosto, le bandiere di Israele e Palestina sfilarono nella cerimonia di chiusura dei Giochi Olimpici. Questa escalation, ideologica e militare, sta travolgendo anche il mondo dello sport. E se lo sport, da sempre, può essere uno strumento di propaganda politica, lo sarebbe anche la sua distruzione. Una volta ero davvero convinto che una palla potesse cambiare il mondo; oggi ho perso quella certezza. © riproduzione riservata