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Quel giorno nero per sport e umanità

Mauro Berruto mercoledì 7 settembre 2022
Cinquanta anni fa, il 5 e 6 settembre del 1972, lo sport e la Storia si saldarono in maniera definitiva e indissolubile. In quei due tragici giorni l'evento più planetario e simbolico dello sport, i Giochi Olimpici di Monaco di Baviera, vennero presi d'assalto dall'azione terroristica del commando "Settembre Nero", fondato un paio di anni prima da alcuni fedayn palestinesi: un'irruzione nella palazzina del villaggio olimpico che ospitava la delegazione israeliana. Due atleti vennero subito uccisi, nove membri della squadra presi in ostaggio e l'operazione di polizia che tentò maldestramente di liberarli all'aeroporto di Fürstenfeldbruck terminò nel sangue. Undici fra atleti, tecnici, dirigenti e arbitri israeliani furono uccisi, insieme a un poliziotto tedesco e a cinque membri del commando terroristico. Una strage, nel cuore dell'evento sportivo più seguito del pianeta, non sufficiente a interrompere i Giochi. Dopo quel giorno di terrore si ricominciò, nello sconcerto generale. Le storie personali, tuttavia, sono spesso quelle che restituiscono meglio l'immensità degli eventi che accadono. Ne scelgo due, con esito tragicamente opposto. La prima è quella di Yossef Romano, 31 anni, pesista, padre di tre figli e veterano della Guerra dei Sei Giorni. Quel giorno camminava con l'ausilio delle stampelle, essendosi infortunato a un legamento del ginocchio durante la sua gara. Il giorno seguente, Romano sarebbe dovuto tornare in Israele per sottoporsi a un'operazione al ginocchio. Provò, nel momento dell'irruzione, a togliere di mano un fucile a un terrorista, forse fu ucciso all'istante da una raffica di mitra, ma rimase il sospetto che fosse stato ferito e poi torturato a morte. Nel settembre 1992 il macabro dettaglio: l'avvocato della vedova dell'atleta ricevette delle immagini di quanto era successo vent'anni prima. La verità emerse solo nel 2015: nella ferocia di quei momenti Yossef Romano venne evirato e violentato dai sequestratori, lasciato morire sotto gli occhi dei suoi compagni e il suo corpo fu posto di fronte agli ostaggi israeliani legati, come deterrente ai loro tentativi di fuga. La seconda storia, invece, è quella di Shaul Ladany, marciatore israeliano che da bambino era stato deportato a Bergen-Belsen, il campo in cui morì Anna Frank. Anche Ladany era in quella palazzina quella mattina, ma per la seconda volta sopravvisse all'incombere della Storia. Ladany, che come Romano aveva combattuto la Guerra dei Sei Giorni, si era stabilito a New York, diventando un docente di ingegneria prestato all'atletica, capace di incastrare allenamenti estenuanti tra una lezione e l'altra. Il 5 settembre 1972 riuscì a fuggire dalla palazzina in pigiama, mentre il corpo esanime del suo compagno di squadra Romano veniva esposto a monito. Pochi istanti decisero un destino così diverso per quei due atleti. Shaul Ladany è oggi un attivo ottantaseienne che festeggia ogni suo compleanno marciando un numero di chilometri pari all'età che compie. Colui che si salvò ci ricorda ancora, cinquanta anni dopo, di quanta strada sia ancora da fare per fare la pace e di quanto sia importante continuare a camminare.