Quanti paesaggi si affollano nei nostri pensieri ? E quanto abbiamo bisogno che accada, che la visione interiore di quei paesaggi possa darci ossigeno, alimentare lanostra vita immaginativa? Messa tra parentesi ogni enfasi sulla Natura intesa come fonte di massima bellezza, di nutrimento per l’anima, taciuta ogni idealizzazione di sorta, cosa resta del nostro rapporto “mentale” con i luoghi naturali? Sino a che punto e secondo quali criteri questi riescono a essere protagonisti, a campeggiare in noi, e così indirettamente orientare le nostre fantasie ? La vastità dei panorami, di immagini dunque non antropocentriche e invece spaziose della stessa vastità di spazio che è della Natura, è indiscutibile necessità per il nostro benessere mentale, psicofisico. Me lo ha fatto ricordare la lettura di un libro bellissimo uscito negli Stati Uniti nel 1956 ma sinora inedito in Italia, Il canto selvatico di Sigmund F. Olson (traduzione di Sara Reggiani, Piano B Edizioni, pagine 207, euro18,00). Un testo che ha per protagonista incontrastata la Natura, ovvero boschi, laghi, silenzi di gole montane, stormire di foglie, cantare di uccelli, avvicendarsi delle stagioni – mai umani; e tuttavia, un libro che ci scopriamo a leggere con la stessa spasmodica partecipazione che può provarsi divorando un romanzo d’amore. Olson fu un noto naturalista, erede ideale di Thoreau, un osservatore e studioso molto attento, il quale con romantica perseveranza si dedicò per anni a perlustrare palmo a palmo la zona del Quetico superiore, tra il Canada e gli Stati Uniti. La sua prosa – poetica ma anche straordinariamente esatta nel descrivere ogni istante di un suo vivere e spostarsi tra gli spazi aperti del mondo – avvince e commuove. Assaporandola, ci accorgiamo di quanto profondo bisogno nutriamo di veder sfilare nel pensiero luoghi ampi, ossigenanti. Bisogno di concepire la Natura come dimensione selvatica, sferzante, talvolta violenta, altre dolcissima – e farlo secondo una prospettiva che possa venire raccontata con le parole, ma senza per questo opacizzarsi o smarrire il suo tratto più autentico e immediato. Sì, abbiamo un intimo bisogno di pensare anche così la Natura, e di meditare su uno tra i principali dei suoi insegnamenti, quello della imprevedibilità degli accadimenti. Così come dobbiamo poter pensare la Natura senza necessariamente fare uso di classificazioni o di schemi preconcetti: sottraendoci alla rigida antinomia natura/cultura, e invece muovendoci nella consapevolezza che descrivere e studiare i suoi fenomeni e manifestazioni, mai equivarrà a dominarla, a un impossessamento per “addomesticamento” intellettuale. «La natura non può più essere immaginata come qualcosa di inerte e plasmabile», argomenta un filosofo nigeriano, ma che si definisce “transnazionale”, Bayo Akomolafe, in Queste terre selvagge oltre lo steccato. Lettere a mia figlia per fare casa sul pianeta (Exòrma). A partire dal nostro bisogno di paesaggi, e mossi dal salutare proposito di imparare dalla Natura anziché solo averne timore, il racconto può cambiare, nuove forme di narrazione possono articolarsi. Magari senza ottenere come risultato prose della stessa struggente bellezza de Il canto selvatico di Olson; ma qualcosa di nuovo, certo sì.
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