Quei «somari» raccontati da Affinati e Pennac
Pennac si è sentito di dovere di restituire quello che aveva ricevuto, diventando per parecchi anni insegnante egli stesso, e incoraggiando «i miei amici e i miei allievi più brillanti a diventare insegnanti».
Ma, in argomento, un altro libro vorremmo anche vedere in cima alle classifiche, cioè La città dei ragazzi, di Eraldo Affinati (Mondadori). Pennac è brillante, affronta con garbo (a parte un paio di lievi mende) un problema serio e offre soluzioni che ci toccano da vicino: parla di noi, delle nostre preoccupazioni che, per quanto gravi, sono pur sempre problemi e preoccupazioni di gente che risiede in un Paese che partecipa alle riunioni del G8. Affinati, invece, ci mette davanti a uno specchio che non rimanda la nostra immagine e spalanca una verità soltanto sospettata: la condizione degli adolescenti accolti in centri come "La città dei ragazzi", la comunità fondata da monsignor Carrol-Abbing alla periferia di Roma, dapprima rivolta agli orfani o a ragazzi italiani in difficoltà, e che adesso ospita prevalentemente «marocchini lasciati partire per l'Europa. Slavi spediti in avanscoperta alla ricerca di soldi. Africani sfuggiti alle lotte tribali. Afghani che si sottraggono alla legge del più forte». Sono questi gli allievi di Affinati, ciascuno con alle spalle una tragedia di cui preferisce non parlare. Disperatamente in cerca di integrazione, vedono nel professore la figura paterna di cui hanno bisogno, senza peraltro spezzare il nesso con la famiglia d'origine, anche se da essa non hanno ricevuto quasi nulla. Tale è il legame tra docente e allievi che Affinati addirittura accompagna in Marocco due ragazzi, Omar e Faris, a rivedere dopo anni i loro famigliari. Il libro - «Romanzo», nel sottotitolo - intreccia il resoconto della scoperta di una così diversa realtà geo-sociale, alla ricerca più interiore che il narratore compie su sé stesso, recuperando il ruolo che il proprio padre non ha esercitato: «Insegnare agli orfani per me significa eseguire il compito che mio padre e mia madre omisero di svolgere. Dev'essere questa la ragione per cui non ho figli. Se ne avessi generato anche soltanto uno, non avrei avuto le mani libere per riparare il danno che ho scoperto».
Non ci sono giudizi in queste pagine che bussano ripetutamente al cuore. C'è tanto amore, tanta dedizione, tanto senso di responsabilità, letteratura tanto più alta quanto meno ostentata. E non c'è da vergognarsi se, leggendo un libro, può anche venire da piangere.