Rubriche

Quei trentatré giorni di Giovanni Paolo I: una promessa di futuro

Salvatore Mazza sabato 6 ottobre 2018
Si può dire che neppure si era fatto a tempo ad abituarsi a lui, anche se quei trentatré giorni erano stati comunque abbastanza per imparare a volergli bene. La mattina di quel 29 settembre di quarant'anni fa, quando come un fulmine a ciel sereno arrivò la notizia della morte inaspettata e improvvisa di Giovanni Paolo I, il mondo restò sotto choc. Radio e televisioni non parlavano d'altro, e molti giornali uscirono in edizione straordinaria. Il Papa gentile, sorridente sempre, semplice nei modi e nei gesti, se n'era andato nella notte, e non si parlava d'altro, tra sbigottimento e incredulità.
Molto, in questi quarant'anni trascorsi da quel giorno, s'è detto a proposito di papa Luciani e del suo brevissimo pontificato. E forse, tra le tante cose dette, resta indelebile il discorso con cui Benedetto XVI, nel 30º anniversario della scomparsa, “fotografò” l'eredità lasciata da Giovanni Paolo I: «Egli scelse come motto episcopale lo stesso di san Carlo Borromeo: Humilitas. Una sola parola che sintetizza l'essenziale della vita cristiana e indica l'indispensabile virtù di chi, nella Chiesa, è chiamato al servizio dell'autorità. In una delle quattro udienze generali tenute durante il suo brevissimo pontificato disse tra l'altro, con quel tono familiare che lo contraddistingueva: “Mi limito a raccomandare una virtù, tanto cara al Signore: ha detto: imparate da me che sono mite e umile di cuore (…) Anche se avete fatto delle grandi cose, dite: siamo servi inutili”. E osservò: “Invece la tendenza, in noi tutti, è piuttosto al contrario: mettersi in mostra”. L'umiltà può essere considerata il suo testamento spirituale». Grazie proprio a questa sua virtù, spiegò Benedetto XVI «bastarono 33 giorni perché papa Luciani entrasse nel cuore della gente. Nei discorsi usava esempi tratti da fatti di vita concreta, dai suoi ricordi di famiglia e dalla saggezza popolare. La sua semplicità era veicolo di un insegnamento solido e ricco, che, grazie al dono di una memoria eccezionale e di una vasta cultura, egli impreziosiva con numerose citazioni di scrittori ecclesiastici e profani. È stato così un impareggiabile catechista, sulle orme di san Pio X, suo conterraneo e predecessore prima sulla cattedra di san Marco e poi su quella di san Pietro. “Dobbiamo sentirci piccoli davanti a Dio”, disse in quella medesima Udienza. E aggiunse: “Non mi vergogno di sentirmi come un bambino davanti alla mamma: si crede alla mamma, io credo al Signore, a quello che Egli mi ha rivelato”. Queste parole mostrano tutto lo spessore della sua fede. Mentre ringraziamo Dio per averlo donato alla Chiesa e al mondo, facciamo tesoro del suo esempio, impegnandoci a coltivare la sua stessa umiltà, che lo rese capace di parlare a tutti, specialmente ai piccoli e ai cosiddetti lontani».
In questi tratti così lucidamente delineati da papa Ratzinger non c'è semplicemente la ragione del perché quel mese di pontificato – un tempo di per sé quasi insignificante nella storia bimillenaria della Chiesa – si sia rivelato con il passare del tempo sempre più fondamentale. Ma c'è, in controluce, anche tutto quello che ha orientato le azioni dei suoi successori. A cominciare proprio dall'umiltà, divenuta tratto distintivo del vescovo di Roma, e dal desiderio di incontrare tutti senza escludere nessuno, facendosi “prossimi” nella semplicità. E fino a quella capacità catechistica di rivolgersi a chi ascolta a partire dal proprio vissuto che, proprio con Francesco, è diventato il modo in cui il Papa si relaziona con il mondo. Davvero quei trentatré giorni non sono stati una meteora, ma una promessa di futuro.